Rientrare a scuola o farsi sospendere?
L’anno scolastico è iniziato, come molti altri docenti sono entrata in sevizio piegandomi al ricatto del tampone, grazie al quale, dietro corresponsione di una somma di denaro, si può acquistare, nella nostra Repubblica democratica fondata sul ricatto, un diritto temporaneo al lavoro della durata di 48 ore.
Una decisione sofferta.
E’ stata una decisione sofferta. Durante l’estate, fatta di tensioni, dubbi, paure, lacerazioni interiori e rotture di rapporti di amicizia più o meno consolidati nel tempo, avevo deciso di farmi sospendere dal servizio fino al 31 dicembre, data in cui dovrebbero (forse) terminare lo stato di emergenza, e di conseguenza, l’imposizione della tessera verde, per evitare discriminazioni, recriminazioni, battutine, offese più o meno esplicite, che sarebbero state la logica evoluzione dell’atmosfera che ha caratterizzato l’ambiente lavorativo nel quale ho vissuto da quando è stata aperta la stagione del siero e la maggioranza dei docenti, ubbidienti servitori delle istituzioni, si è precipitata in massa a offrirsi come cavia per mettersi al sicuro dalla pandemia, per ottemperare a una richiesta dello stato, per poter guadagnare una posizione di superiorità nella gerarchia sociale, trascinata in un rituale collettivo più simile a un pellegrinaggio verso un luogo santo con tanto di concessione dell’indulgenza plenaria che ad una profilassi sanitaria.
Alla fine, consapevole di rientrare in un ambiente ostile che si sarebbe fatto ancora più ostile con il trascorrere del tempo, sono rientrata al lavoro con il mio primo lasciapassare governativo, acquistato al prezzo di 15 euro, e stampato, per l’occasione, a colori.
Difendere il diritto al lavoro e cercare il dialogo
Sono rientrata a scuola fieramente convinta di dovere difendere il mio diritto al lavoro, convinta di avere il diritto di non essere chiusa in casa come un sorcio, come propagandato dalle viro star e dai politicanti impegnati come testimonial della campagna di istigazione all’odio sociale che ci ha tenuto compagnia durante questi mesi e che non accenna a terminare.
Sono rientrata quasi contenta di poter esibire il mio tampone negativo, grazie al quale avrei potuto sostenere di non rappresentare un pericolo per nessuno, dal momento che nessuno avrebbe potuto pensare di essere contagiato da me, poiché il mio lasciapassare temporaneo è un certificato, emesso dallo Stato, che mi garantisce di essere “sana”, e dunque, con la mia presenza, avrei potuto spezzare l’equivalenza, sostenuta dai media e dalle persone che di questi si nutrono compulsivamente, che una persona non sottoposta al trattamento del siero sia per antonomasia malata e dunque contagiosa.
Essendo il mio accesso a scuola regolamentato da ripetuti e reiterati tamponi negativi, nessuno avrebbe potuto offendermi o trattarmi come una lebbrosa, come accadeva questa primavera, e a chi mi avrebbe incalzata dicendomi che avrei potuto essere io a contagiarmi (in questo caso, da loro vaccinati, dal momento che tutti i non vaccinati entrano al lavoro con il tampone negativo, ma questo non si può dire…) avrei risposto che le cure domiciliari ci sono, che esistono, che ci sono medici scrupolosi che prescrivono queste cure e non lasciano morire le persone in compagnia di “tachipirina e vigile attesa”, secondo quanto prevede invece il protocollo governativo, e che comunque sarebbe un problema mio , e non loro, con tutte le considerazioni retoriche del caso.
Sono rientrata convinta di poter aprire un dialogo con le persone che si sono sottoposte al siero, convinta di poter dimostrare loro che possiamo sederci l’uno accanto all’altro senza che abbiano paura di essere automaticamente infettati per il solo fatto di trovarci all’interno della stessa stanza,
sono rientrata convinta di poter aprire un contraddittorio costruttivo con le persone che si sono trincerate dietro il pensiero unico senza porsi domande , pensando di poterle aiutare a riflettere sul fatto che la tessera verde è divisiva, distrattiva e illegittima, perché illegittimo è ledere il diritto allo studio e al lavoro, riducendolo a una sorta di compravendita, per la quale lo si riacquista per un anno se si accetta di cedere la sovranità su proprio corpo allo Stato, oppure per 48 ore , pagando per poter esibire un certificato che dimostri di essere sani, in totale assenza di misure di reale prevenzione , che erano assenti già prima della pandemia.
I problemi della scuola (to be continued)
Per quanto riguarda la scuola, infatti, ci troviamo con gli storici problemi irrisolti, che sono rimasti tali, quali la carenza di organico, le classi pollaio, la mancanza di sistemi di ricambio dell’aria diversi dalla finestra aperta, la deroga al distanziamento se non ci sono le condizioni logistiche affinché questo possa essere mantenuto… ma ne scriverò in un’altra occasione, poiché l’argomento è “succulento” e merita di essere trattato in maniera monografica.
Tessera verde e caccia alle streghe
La tessera verde, dunque, si configura come un velo, una coperta, un travestimento, con il quale, in nome di una efficacia sanitaria che è stata negata persino dai più autorevoli virologi di regime, si occultano ben altre scottanti problematiche, dalle quali si distoglie l’attenzione con il miraggio della caccia all’untore, ufficialmente formalizzata , partecipando alla quale ognuno può sentirsi parte attiva in questo inarrestabile e progressivo imbarbarimento dei costumi che tutto travolge, triturando e distruggendo qualsiasi voce di dissenso, individuando di volta in volta un colpevole su cui riversare la colpa di ciò che non funziona, e che pertanto deve essere “bruciato”, al pari di quanto si faceva con le streghe durante il medioevo, offrendolo al popolo come capro espiatorio.
Rientrare e resistere
Dunque la mia convinzione era quella di rientrare, rientrare è stata una dimostrazione di resistenza, e la resistenza l’avrei costruita giorno per giorno con il dialogo, con il contraddittorio costruttivo, con lo sconto e l’incontro, come fosse una missione.
Siamo rientrati in tanti. Tanti si sono chiamati fuori e si sono fatti sospendere, rinunciando a lottare, e non li biasimo. A modo loro, combattono, denunciando, con la loro assenza, l’ingiustizia del sistema. Hanno creato un vuoto, materiale e emotivo, e hanno sigillato la loro scelta con il distacco, il silenzio, più eloquente di mille discorsi, ma le cattedre da loro lasciate vuote sono già state riempite da supplenti diligenti e vaccinati, e ai ragazzi sarà stato detto che i loro insegnanti non possono più insegnare perché sono “contro il sistema”, “contro la legge”, senza spiegare loro che rinunciare al posto di lavoro a causa di una legge ingiusta è stato un enorme sacrificio e non un capriccio.
Alcuni di noi che siamo rientrati combattono, giorno dopo giorno, fronteggiano i pregiudizi, sapendo di essere comunque giudicati negativamente nonostante l’impegno profuso nel lavoro sia lo stesso di sempre, ma la realtà con cui interagiamo non è disposta a perdonarci questa sorta di peccato originale, questa incomprensibile macchia nell’animo che spinge comunque gli altri alla diffidenza, in virtù del fatto che i docenti debbano comunque ubbidire all’autorità, non devono avere dubbi, non devono porsi domande, non devono avere pensiero critico, non devono documentarsi cercando fonti alternative alla televisione e alla stampa istituzionalizzata, dimostrando con questo atteggiamento di essersi conformati alla nuova figura del docente che si è delineata negli ultimi 10-15 anni , che non è più quella della guida alla formazione del pensiero critico attraverso lo studio e l’analisi delle fonti, ma quella del puro trasmettitore di contenuti, coniugata alla mera funzione di certificatore di competenze e, all’occorrenza, di impiegato di diplomificio. In questo senso la pandemia ha trovato la sua platea ideale, che plaude ogni sviluppo della deriva liberticida che, in nome della presunta sicurezza sanitaria, si è innescata.
Alcuni di noi che siamo rientrati hanno invece scelto di adottare un basso profilo, come se nulla fosse, entrando con il lasciapassare da tampone senza dare nell’occhio, sperando che le farmacie trasmettano al sistema i propri dati sempre nei tempi giusti, in modo da non rischiare di fare suonare allarmi in ingresso ed essere allontanati dalle collaboratrici scolastiche per l’occasione insignite del ruolo di kapo, in attesa che questa distopia possa terminare e sopportando in silenzio per evitare, appunto, discorsi, discussioni, intimidazioni, coinvolgimenti emotivi non necessari e inutile dispendio di energie. A modo loro, combattono, rinunciando a esporsi, e non li biasimo, perché, a modo loro, si difendono, si autotutelano, proteggendosi da ulteriore sofferenza.
E i ragazzi?
A differenza degli adulti, i ragazzi non giudicano. Ai ragazzi ho detto subito di non essere vaccinata, perché me lo hanno chiesto, anche se non sarei stata tenuta a farlo, e ho spiegato loro che, entrando con il tampone negativo, non costituisco un pericolo per nessuno, ma che dobbiamo, comunque, rispettare le distanze, utilizzare le mascherine, aprire le finestre.
I ragazzi non giudicano. Mi hanno detto che dal momento che io sono “vecchia” (e hanno ragione), per me è più facile rinunciare agli amici, al gruppo, al divertimento, al cinema, al teatro, alla pizza, al Mac Donald, al parco tematico, alla vacanza, allo sport… e che per loro, invece, sarebbe stato impossibile continuare a rinunciare, perché da giovani non si può rinunciare a tutto e non avevano alta scelta.
Nulla che spinga a “rimboccarsi le maniche” e a conquistarsi l’accesso alla classe successiva, ma piuttosto un piccolo ricatto, spacciato come sistema per progredire negli studi.
E’ stato un ricatto anche l’estensione del vaccino ai ragazzi, i quali, per la forma mentis che il sistema ha sapientemente inculcato loro negli anni, lo hanno accettato come se fosse normale, e non hanno neanche percepito fosse un ricatto.
Per loro il “green pass” è una tessera per entrare nei locali, la maggior parte di loro ignora l’esistenza della Costituzione, anche se l’anno scorso hanno avuto la sufficienza nella valutazione di educazione civica, anzi, qualcuno mi ha anche confidato che “la Costituzione non gli interessa perché è roba da vecchi” e che loro “non hanno tempo per leggerla”, e non posso fare a meno di pensare che questo è il normale risultato della decadenza del sistema scolastico a cui accennavo prima, dal quale è stato bandita la formazione del pensiero critico, per cui abbiamo, magari, ragazzi bravissimi a ripetere la lezione o a fare calcoli, ma carenti nella formulazione di connessioni tra vari contenuti e incapaci di svolgere, ad esempio, una ricerca e una comparazione di fonti documentarie.
Qualcuno, anche tra loro, ha resistito. Lo so, perché lo leggo dagli sguardi tristi e profondi che emergono da quei visi nascosti dalle mascherine, perché per loro fronteggiare il biasimo del gregge è assai peggio di quanto lo sia per noi, e immagino si sentano in pericolo, in balia della precarietà assoluta, colpevoli di non avere il marchio di omologazione esattamente come noi adulti.
Il concetto di “libertà”
In quest’ottica mi sforzo di comprendere chi ha confessato di avere scelto la via del siero “per essere liberi”, perché la “libertà” non è la libertà dal contagio ma piuttosto dalle misure repressive che lo Stato mette in atto per tutti i cittadini sani che rifiutino di cedergli la sovranità sul proprio corpo e vogliano disporre della libertà di scelta, tutelata dalla Costituzione, ormai ridotta a carta straccia anche se formalmente ancora in uso, di poter rifiutare un trattamento sanitario la cui imposizione va a ledere la dignità del singolo, implicando il rischio di effetti avversi dei quali non è questa la sede opportuna per parlare.
Umanità celata e umanità occulta
Abito vicino alla scuola in cui presto servizio, e mi reco abitualmente al lavoro facendo una passeggiata. Sono fortunata, lo so, non devo servirmi dei mezzi pubblici, a differenza di come ho fatto per molti anni. Passeggio in mezzo agli alberi, osservo i colori intorno a me e respiro. Sorrido. Respiro e cerco di non pensare a nulla. In prossimità del portone dell’istituto scolastico indosso la mascherina, mi imbavaglio, per tutta la mattina rinuncio a respirare e a sorridere, ma poco importa, ormai ho imparato a spiegare in apnea, quando faccio tante ore al pomeriggio ho sempre mal di testa e un po’ di tachicardia ma magari è un caso, il rossetto non lo mettevo neanche prima ma mi sento mutilata senza il mio e l’altrui sorriso, mi sembra che sia una pena suppletiva, una riduzione delle emozioni e dei coinvolgimenti emotivi; dei miei studenti nuovi conosco mezza faccia , fuori dalla scuola non li riconoscerei e probabilmente non avemmo nulla da dirci e neppure motivi per salutarci, visto che il contatto umano è forzatamente limitato e si parla poco oltre il necessario. Fa soffrire, ma si sopporta.
Prima di varcare la soglia del portone estraggo dalla borsa il mio “green pass” cartaceo, in modo da non doverlo cercare una volta dentro, anche se fuori piove e mi bagno voglio entrare con la tessera verde in mano, in modo da espletare velocemente il riconoscimento presso il totem e andare in classe. Se impiego qualche manciata di secondi in più a cercarlo dopo aver varcato la soglia, inevitabilmente qualcuno mi deriderà dicendomi “l’hai dimenticato in farmacia oggi?”… “eh certo, noi vaccinati abbiamo una marcia in più perché ce l’abbiamo sul telefonino”…. “beh, però il naso ancora ce l’hai intero, non si vede che fai i tamponi” e altre amenità del genere, a volte ho voglia di rispondere con il sorriso e iniziare un discorso, a volte no, dopo un mese e mezzo di scuola ne ho sempre meno voglia perché mi sembra di essere un disco rotto, che suona per un pubblico con i tappi di cera nelle orecchie, che non si accorge di averli.
E io sono grata al totem perché l’unico barlume di “umanità”, in un contesto di spettri “mascherinati” e per i quali il green pass acquisisce valore di titolo superiore a laurea e abilitazioni, mi viene dato da una macchina, alla quale nulla importa se sono vaccinata o tamponata, lei fa ciò per cui è stata programmata , democraticamente e senza cattiveria o pregiudizi, e, in questo, la macchina è preferibile agli umani.
Cristina Tolmino