Sandwich: la jeanseria che ci diede un nostro brand

Sandwich non è soltanto una jeanseria ma rappresenta, per le generazioni del ponente genovese, il rito di passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza.

I ragazzini, specie tra la prima e la seconda media, hanno sempre mostrato con orgoglio i capi acquistati da Sandwich e andare da Pino significa dimostrare al gruppo dei pari di essere finalmente cresciuti.

“Mamma, non è possibile che chiuda Sandwich proprio adesso!” mi dice Vanessa, la mia figliuola xxs, alla quale sono riuscita a comprare un paio di jeans ma non i costumi che avrebbe desiderato perché, il suo corpo, è ancora in fase di sviluppo.

Mio figlio invece si è servito alla grande in questo store perché Pra’ adolescente veste Boy London.

La più piccola invece non commenta, ci rimane semplicemente male perché per lei Sandwich non ci sarà.

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M’intristisce questa chiusura, il mio primo ricordo di Sandwich è legato a un vestitino rosso che comprai diciannovenne per andare in discoteca con Giovanni Lunardon e Fabrizio Benente, come me studenti di archeologia. Benché avessi già diciannove anni, per me quel vestito significava Libertà. Ero finalmente uscita dal liceo classico, dallo studio matto e disperatissimo che aveva caratterizzato i miei ultimi cinque anni di vita (praticamente un’adolescenza negata) e riuscivo finalmente a unire studio e divertimento.

Sandwich rappresentava tutto questo e molto di più.

Perché il negozio, che adesso si trova in una bella Aurelia pavimentata ad arte, affonda le sue radici nella Pra’ degli anni Ottanta, quella Pra’ sui cui muri vi era scritto: “L’eroina uccide lentamente ma noi non abbiamo alcuna fretta”.

La Fascia di Rispetto non era neppure ipotizzata, i ragazzi ancora non conoscevano il Parkour e l’atrio di Sandwich era su un marciapiedino stretto stretto vicino alla fermata dell’Uno.

E ci si andava, che si provenisse da Pra’, dal Cep o da Voltri perché Giuseppe Fasolino aveva avuto una grande intuizione: creare una sorta di brand popolare che univa uno stile cool a prezzi accessibili per il proletariato ponentino, un Genoa Western Brand.

Bagnara per noi era inaccessibile e, forse, non rispecchiava neppure i nostri gusti; Sandwich era diverso: potevi guardare, sentire i tessuti, chiedere il prezzo e alla fine ti arrivava sempre lo sconto.

Il fenomeno Sandwich è andato ben oltre il concetto di negozio, è diventato un vero e proprio brand che ha dettato la moda a generazioni e ha diffuso marchi che prima non erano così noti.

La chiusura di questo negozio storico, immutato eppure giovane in una Pra’ che mutava, ci lascia un gusto amaro tra le labbra, forse quella lacrima che non siamo riusciti a trattenere nella stesura di questo articolo.

Rosa Johanna Pintus


Day one: Coronavirus isolation

Today, for us, in Genoa, is the day one. Yesterday I went at church, in San Rocco, and I jocked with the priest about Coronavirus, he said: “Be quiet, we have our corona” and he showed the rosary crown. We laughed, he was a fanny priest from Bergamo. We knew that Lombardia has a big problem, people from Lodi have to stay at home because they have some people with Coronavirus.

My cousin called me, she is from Bergamo, near Milano, and told me that she can’t find coronavirus mask; I tried to buy someone for her but, also in Genoa, there aren’t more.

People, when they want, are really quikly to find what they think is important for life.

I called her: “I didn’t find mask”.

She said: “Don’t warrie, I look Amazon…oh, shit! They are so expensives!”.

“Yeah, it’s true: it’s speculation.”

So I went at home and I thought: “It’s Salvini nemesis: now Italian people are not the first but the last!”

Yesterday evening everything changed quikly: in Liguria every school must be closed. I can’t believe it.

The order start to 00.00 of 24 February, so there is a big problem! Nobody thing to stop the Lega dinner in Genoa, why? 1,500 people for him and nobody think to Coronavirus!

Today I feel myself strange: I used to have my coffee at 7.20 am, to run for the train, to write poems by my mobil, to explain Dante: I was near to speak about Ulisse and tell: “Fatti non foste a viver come bruti”. But now, nothing.

The schools are closed but sport clubs are open. Really, why should we close them? In January and February there is every championschip: football, rugby, dance, swimming. In January and February, who is a mother or father, say all the spots hall and the Coronavirus was already in Italy.

Them my family with other family will wait and will study every symptom.

However it ‘s good to live between our walls, we have some space for us: we speak, we cook, we play together.

Today we made ragù and lasagne, we went to our sports but maybe tomorrow every phisical activities will be prohibited, we don’t know.

Sorry for my english,

goodnight

Rosa J. Pintus


Scandalo a Sanremo? Non in nome del rap!

Sanremo sta per cominciare e la macchina scandalo-audience è partita a tutta velocità; continuerebbe la sua folle corsa ma, ahimé, è stata fermata dal Coronavirus.

Dal Coronavirus, non di certo dai femminicidi che hanno caratterizzato questi ultimi giorni.

No, il femminicidio non ha fermato proprio nessuno, è diventato argomento di …poesia, un dolce stil novo che io odo: arte che non va censurata. Una vocina mi chiede: ma perché Erri De Luca ha rischiato il carcere per molto meno?

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Sanremo è Sanremo: da sempre criticato e da sempre osannato. Carlo Besana lo definisce un rito, una liturgia e non ha torto. Il festival, accanto alle canzonette melodiche, ha ospitato pezzi importanti, di denuncia sociale e il mio ricordo va a Barbarossa che nel 1988 cantava “L’amore rubato“. Ve lo ricordate quel pezzo?

La ragazza non immaginava
che così forte fosse il dolore
passava il vento e lei pregava
che non tornassero quelle parole
adesso muoviti fammi godere
se non ti piace puoi anche gridare
tanto nessuno potrà sentire
tanto nessuno ti potrà salvare
e lei sognava una musica dolce
e labbra morbide da accarezzare
chiari di luna e onde del mare

Era il 1988 e Luca Barbarossa sollevava un problema enorme ma, solo nel 1996 avvenne il miracolo: i reati sessuali, prima considerati semplicemente delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, furono finalmente ( legge 15 febbraio 1996 n. 66, norme contro la violenza sessuale) inseriti nel Titolo XII del Codice Penale, “delitti contro la persona”, si riconosceva cioè che la vittima era la donna e non la morale.

Io, nel 1995, considerata causa del mio destino per il semplice fatto che sapevo ballare ed ero carina, provai a denunciare l’argomento in una questura popolata all’epoca da soli uomini; mi guardarono come se fossi una puttana e, a un certo punto, cominciai a dubitare di me stessa.

Me l’ero cercata? Era colpa mia? Certe ragazze non frequentano certi luoghi. Certi luoghi? Diamine! Io ero in una palestra, non ero in certi luoghi degradati. E allora perché non avevo urlato? Vero è che se avessi urlato…ma la verità nuda e cruda è che tu non urli perché ti vergogni da morire, perché ti senti in colpa anche se subisci ma soprattutto perché non riesci a credere che quella cosa stia succedendo proprio a te, ti sembra di vivere la scena di un film e la tua persona diviene altro.

Allora, si era drogata signorina?

Ero tentata di sputare in faccia al poliziotto. Ritirai la denuncia, anzi non terminai proprio di farla. Ricordo che a un certo punto me ne andai; ne parlai, dopo qualche anno, al mio incredulo professore di greco dell’ università, al quale avevo lasciato la mia rielaborazione dell’Ippolito e aveva capito. Fu lui a dirmi che quel libro non poteva restare nel cassetto, che non era giusto, che Artemisia aveva avuto coraggio, che quel libro era la denuncia perfetta. Pubblicai il libro molti anni dopo: ero già un’insegnante di ruolo e, quando mi fu chiesto qualcosa su quel particolare pezzo, raccontai che come insegnante avevo sentito molti racconti da ragazze e madri. Generico, perfetto, sicuramente vigliacco.

Cercai di opporre resistenza, adirata per il precedente schiaffo, in realtà non ero più in grado di amarlo.

Un freddo stridore di metallo accompagna il ricordo.

«Non fare la sciocca Fedra, sei mia moglie».

«Non ora Teseo, non ci riuscirei», il suo volto mutò repentinamente.

«Apri le gambe, donna, aprile», lo sguardo che generò Ippolito fu, dunque, quello? Povera Antiope!

Era folle: il sangue concentrato nelle sfere oculari, la sua virilità, durissima spada, mi trapassava da parte a parte. 

La mia femminilità umiliata, a brandelli.

Allora cominciai a capire cosa intendesse Antiope.

Solitudine.

Se esiste una parola che accomuna le donne prese a forza quella è proprio “solitudine”.

Ho gli occhi ma non vedo. Grido un urlo senza voce.

Io avevo i Greci, potevo sublimare nei classici e potevo parlare di me stessa come se fossi un’altra, e non una qualsiasi, una donna inesistente, una figura mitologica che non esisteva e, se non esisteva, nulla era accaduto.

Nel ’96 quei reati, che prima rientravano nelle fattispecie “violenza carnale” e “atti sessuali” vennero definiti “violenza sessuale” e adesso sono puniti a norma dell’articolo 609 bis del codice penale.

Non che nel ’96 sarebbe cambiato qualcosa in questura, non credo, le donne che denunciano fanno rabbia e danno fastidio, per questo la maggioranza decide di tacere e, alla fine, tacqui anch’io e ci misi una pietra sopra.

Eppure nei romanzi questa cosa usciva prepotentemente ogni volta:

La vedono

Si chiedono quale padre imprudente possa lasciare quella ragazzina da sola.

 La guardano meglio: è senza dubbio la figlia della Mariella che guadagna qualche soldo trascinando i loro padri nella sua stanza e le uova gliele ha date Turiddu; forse per questa volta si è accontentato di guardare le belle gambe.

Il sapore del ricordo è presente come fiele; “è passato, è passato”, Pietro predica, suda e ripiomba in quel mentre. 

 “Vieni accà”, disse Tony, all’epoca suo migliore amico e leader indiscusso del gruppo quindicenne. Ines capì subito che era perduta: non aveva fratelli a cui chiedere vendetta né sapeva chi fosse suo padre. Pietro provò una sensazione di panico e di eccitazione insieme, non si sentiva di opporsi al gruppo, dentro era in preda a un fuoco infernale che lo arroventava, lo avviliva, lo innalzava. In fondo in fondo era suo diritto prendersi Ines, suo padre spendeva i soldi proprio con Mariella e un piccolo risarcimento, loro figli, se lo meritavano. Ines tentò comunque di scappare, più per dovere che per convinzione – del resto sapeva che prima o poi le sarebbe capitato – la distanza le dava un certo vantaggio ma le uova la impedivano nella fuga.

Tony le afferrò i capelli con una mano, lei si voltò con due occhi che erano taggiasche mature e lui le rubò un bacio, poi la lasciò andare tanto per divertirsi ancora un po’ a inseguirla.

Pietro le fu davanti e di lato giunsero proprio quel Pasquale che ora giaceva nella bara, Marcello e Cosimo.

 La presero, tutti e cinque, e sazi la abbandonarono sul bordo della strada.

E ancora:

La condusse in camera e girò la chiave nella toppa, quindi la prese per i capelli, la fece inginocchiare (sta’ ferma, non ti voglio fare alcun male) e condusse il suo volto tra le gambe (o sul lettino della palestra?). Sonia, piangendo (almeno metti il preservativo, almeno quello !- tu sei venuta da me, non ti ho cercato io) in silenzio, eseguì tutto quello che le veniva richiesto in una sorta di trance nella quale tre uomini si sovrapponevano: lui, Elio e Marcello. I bimbi dormivano profondamente mentre lei riceveva schiaffi e insulti sussurrati nel buio (lo vedi? sei una strana bambina e mi ecciti).

Per cui, per tornare al punto di partenza e giusto per necessità di chiarezza, io non sono certo la tipa che si scandalizza per le parole di…Lelly Kelly, ne so usare di peggiori e di più violente; io semplicemente m’incazzo per i contenuti, diffusi senza alcun filtro, a un target di adolescenti da uno pseudoartista che sì, lo ammetto, manderei in carcere a riflettere.

Perché cosa scrive costui?

Robin Hood, deruba ricchi
Malibù, limone a spicchi
Si fanno le storie con quaranta fighe
Ma poi arrivo io quindi tu non ficchi
Dentro al gioco, chiappe strette
Amici rapper, solo marchette
Voglio vedere la vostra faccia sopra i pacchetti delle sigarette
Sì, li ho uccisi tutti quanti io
Sì, li ho uccisi, signor maresciallo
Gliel’ho servita come han fatto loro
Gliel’ho servita sopra a un piatto caldo
Testa alta quando ti parlo
Guardami in faccia quando ti parlo
Mi hanno sfidato, è stata una cazzata
Come quando scopi e ti togli in ritardo
Lei si chiama Gioia, ma beve poi ingoia
Balla mezza nuda, dopo te la da
Si chiama Gioia perchè fa la troia
Sì, per la gioia di mamma e papà

Questa frate non sa cosa dice
Porca troia, quanto cazzo chiacchiera?
L’ho ammazzata, le ho strappato la borsa
C’ho rivestito la mascher
a.

Mi dite che si tratta di rap, addirittura di cliché del rap: eh, poverino, è vissuto in periferia…

Cosa?

Io ci sono vissuta nell’estrema periferia e conosco i ragazzi delle case popolari, il loro modo di pensare.

Non basta provenire dalla periferia per insignirsi del titolo di rapper.
Da noi, nell’estrema periferia genovese, nei palazzoni popolari dai citofoni bruciati e le siringhe abbandonate sugli stipiti degli ascensori, l’unica maschera accettata è quella di pelle, la propria pelle.

Chi non mostra il proprio volto, chi si nasconde e ti scruta senza lasciarsi guardare, è definito pisciazza.

Lì chi solo si azzarda a spingere una donna, viene preso a cinghiate sulla pubblica piazza e manco viene soccorso.

Non dico non vi siano grida e c’è chi picchia le donne ma poi il quartiere o il carcere regolano i conti.

Da noi, nella periferia di Genova, non mancano rappers o trappers ma i testi dei nostri sono bellissimi e raccontano in versi l’io di chi li canta, come nel caso di Tedua che scrive:

Da bimbi pensavamo noi da grandi in cella/ Chi ha il rello in piazza porta gli altri in sella/ Non mi sottovalutare, non sai cosa ho in serbo/Resto fermo no o vedrò generazioni passare tipo il bidello.

O Young Slash in Mamma :

Oggi sono un po’ cambiato/ quello che tu mi hai dato è molto/ più di un tuo sorriso/ Mamma/sei l’unica che mi capisce,/ mamma/ dalle ferite mi guarisce./Cambia/ tutto quando si fallisce:/ ma chi ti preferisce, sai, non ti tradisce mai.

Si tratta di ragazzi giovani che sì, usano le parolacce, il dissing, ma i contenuti parlano di valori profondi, a volte di rabbia verso la società e le istituzioni affinché il malessere sociale divenga un grido d’arte.

Però qui risulto di parte, lo sapete che amo il Cep per cui risulto faziosa. Se ci spostiamo da Genova e andiamo nelle grandi città, i bravi rappers non mancano, in particolare ce n’è uno che reputo geniale: Lowlow; leggete questo testo, si tratta del Sentiero dei nidi di ragno (e già dal titolo si capisce che il ragazzo legge).

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Lowlow

In strada principesse che frugano nei rifiuti
I geni sono tutti rinchiusi nei manicomi
Non siamo più persone, siamo solo polinomi
A Spoon River c’è una lapide con scritti i nostri nomi

Non ho mai avuto un ferro, né una pistola ad acqua
Morirò senza aver mai messo una cravatta
Morirò senza aver mai baciato una
Urlando come un sordo sotto una luna distratta
.

Però conosco un posto che gli altri non sanno
Dopo il bosco nero, il sentiero dei nidi di ragno
Quando i grilli canteranno, gli adulti balleranno insieme
Sopra le ossa dei partigiani seppelliti in mezzo al fango
.

E sarò eternamente grato ai miei ascoltatori
Ma devo dirvi una cosa delle peggiori
Siamo ventenni vomitati dal ventennio Berlusconi
E la musica non vi salverà, salvatevi da soli.

Per inciso, anche Lowlow proviene dalla periferia di Roma ma, a differenza di Junior Kelly, è un artista. Un testo troppo delicato e intellettualoide? Se volete la violenza pura, ma motivata davvero dalla rabbia sociale, ascoltatevi Ulisse:

Ho scelto il male perché il bene era banale
Dio m’ha dato una pistola facile da maneggiare
Forse certa gente la deve pagare
Forse io non ho paura di sparare
E probabilmente non servirà a niente
Lo capisco da solo, mi reputo intelligente
Ma sento queste voci e mi partono queste fisse
Un giorno di vita di Nico, Ulisse

Stai sanguinando stella? Non fai pena a nessuno
Vuoi sapere perché fumo, perché digiuno?
Vuoi vedere il video di un bambino bullizzato online?
Vuoi sapere che pensavano quelli di Columbine?
(Etc.)

Quello di Junior Kelly-Lelly Kelly. invece, non è né rap né, è istigazione a delinquere.
La coraggiosa DS Angela Rosauro, in una lettera a Tutto Scuola, ha affermato, con forza, che il Sistema Istruzione non può tacere di fronte alla presenza in RAI del rapper Junior Cally. La Scuola non può stare a guardare, e soprattutto non può tacere il Miur che invece tace, pur essendo il massimo punto di riferimento per gli studenti, i DS e gli insegnanti.

Del resto un velo impietoso andrebbe calato anche sul mitico Amadeus che, intervistato dai giornalisti, è apparso come uno scolaretto impreparato e privo del necessario lessico di base per rappresentare l’Italia a Sanremo.

A meno che l’Italia non sia diventato proprio questo: un Paese di gente zotica e vil.
Tuttavia anche in questo caso, il peggiore, il mondo della scuola e tutte le istituzioni chiamate a rappresentare e a proteggere la cultura non possono esimersi dal condannare questa scelta: Tucidide ci ricorda che il Male non è soltanto di chi lo fa ma anche di chi, potendolo impedire, non lo impedisce.

Le motivazioni per impedire che il Festival giunga a questa disonorevole deriva sono molteplici, non si tratta soltanto di buon gusto.
In primis la RAI non appare più in grado di scegliere i suoi conduttori e si piega al capriccio di un Amadeus che mira a nascondere la propria inadeguatezza con uno scandalo: il modo più antico per
richiamare audience e per nascondere il fatto- mai metafora è stata più opportuna- che sotto la maschera c’è il nulla.
Se viene sdoganata la cultura dello scandalo, gli adolescenti vi si adegueranno e cercheranno le vie più facili per diventare noti attraverso atti istintivi e lesivi.
Non solo: senza bisogno di scomodare Lelly Kelly, Amadeus è riuscito a delegittimare con un’ unica asserzione, “è bella e sa stare un passo indietro”,anni di faticose lotte per la parità di genere e a legittimare l’atteggiamento sempre più narcisista e prepotente che hanno ormai alcuni teenager nei confronti della “tipa”.

Mettiamo, per quanto possibile, da parte i contenuti dei testi che vi ho proposto, facciamo un discorso meramente artistico, formale: quale dei due rapper presi in esame testo critica l’attuale società in maniera profonda? Quale invece ci resta impresso in quanto disturbante, ma vuoto, e usa una maschera come trampolino per il successo?

Lowlow è un artista, Junior Cally conosce la comunicazione e il marketing.

Sarebbe un ottimo produttore, indubbiamente capace, ma che faccia cantare gli altri!

Ahimé, dobbiamo stare zitti, altrimenti veniamo accusati di censurare l’arte anche se sono la prima, nei miei libri, a non utilizzare perifrasi.

Io non censuro l’arte, critico la non -arte travestita da arte e, come artista, Lelly Kelly è un quacquaraquà, cioè un uomo da niente-come spiega Camilleri-incapace di rispetto.

Siccome però quacquaraquà e populisti vanno per la maggiore, in questo Paese, l’uomo mascherato ha successo e qui si chiude il cerchio.

Intanto i femminicidi sono in ascesa, certo, non è colpa del rapper ma i suoi testi esaltano, e non denunciano, il potere assoluto del maschio sulla femmina; non solo, egli definisce “strega” questa donna che gli suscita sì nobili pensieri. Preferisco la strega di Vasco Rossi che, almeno, sceglie di fare l’amore. Asserire che Cally tira fuori il problema per risolverlo, è come legittimare il gesto di Salvini che ha citofonato nel quartiere Pilastro e io non ci sto.

Quale messaggio passa? Come interpreta questo testo chi lo ascolta e non ha gli strumenti critici per capirlo? Vogliamo dire che ha un significato letterale e uno allegorico?

Oh, allora ci troviamo di fronte a un novello Dante, chapeau!

Vogliamo sottolineare che il ragazzo ha fatto un salto di qualità poiché nel testo in gara ci parla dei migranti e si spaccia per cattocomunista?

No, non facciamoci prendere in giro così.

Vale la pena di ricordare che un adolescente non è un adulto, è piuttosto un bambinone che sta abbandonando l’infanzia e che è alla di “modelli altri”, rispetto a quelli proposti da Scuola e famiglia, che lo aiutino a rapportarsi col gruppo dei pari e, nel contempo, ad affermare il proprio
ruolo di uomo in potenza.
Le femmine invece, adolescenti pure loro ma ancora figlie di una concezione patriarcale che fatica a scomparire in Italia, potrebbero intendere che l’unico modo per emergere in Italia sia non tanto la bellezza
quanto l’ostentazione di questa e l’accompagnarsi a un uomo famoso.
E intanto questo individuo continua a raccogliere visualizzazioni in un capolavoro pubblicitario che non ha eguali.
Mi chiedo, in maniera ingenua, perché certi video non vengano oscurati ma anche perché, l’attrice del video non si sia rifiutata di prestarsi a questo gioco; una ragazzina che entri per la prima volta nel tempodelle mele potrebbe intendere che il sesso sia quello, che sia giusto farsi fare determinate cose dai ragazzi,che tutto sommato lo dice anche Sanremo, che la violenza è amore estremo. Un ragazzino potrebbe ritener
giusto legare, violentare e riprendere una ragazza per poi postarla su Instagram.
Tutto questo grazie a ciò che Amadeus e la RAI definiscono arte.
Aiuto!
Forse è il caso che la RAI faccia un passo indietro e la Scuola faccia un deciso passo avanti altrimenti…speriamo che salvino i nostri ragazzi i “Me contro Te”!

Rosa J.Pintus


La Scuola e la periferia: un invito all’ascolto

Sono giorni molto difficili, questi, per la Scuola; un’estate troppo breve per contenere tutte le emozioni, le istanze, le delusioni. Mi volto indietro e riguardo l’anno scolastico, trascorso a studiare, a sperare, a piangere, a rialzarsi e a togliere, inevitabilmente, tempo agli affetti.

Un anno intenso, sicuramente formativo ma che, fino a poche ore fa, pensavo mi avesse lasciato in mano soltanto un pugno di sabbia e un leggero calo scolastico dei miei figli che ho seguito di meno nello studio (rendendoli finalmente autonomi).

Un pugno di sabbia che scivola tra le dita perché non ho vinto ma sono viva e sto recuperando il tempo della famiglia.

Non è andata così per Andrea e Claudia, vincitori stroncati da una morte prematura.

Mi chiedo come abbiano vissuto questi ultimi anni, caratterizzati principalmente da una parola: attesa.

Attesa della preselettiva e degli esiti, della prova scritta e degli esiti, dell’orale e dell’esito, dell’annullamento e dell’eventuale ribaltamento della sentenza.

Li penso; avranno pur letto qualche mio articolo battagliero e si saranno forse arrabbiati; certo l’esito finale, la loro morte improvvisa, non l’avevano immaginato. Si pensa a un Dio, io credo in Dio, ma la domanda “Perché?” resta senza risposta, quasi sussurrata in un silenzio di ghiaccio.

Non è la morte in sé a sconvolgere, nel mio quartiere si muore giovani e consumati, a fine funerale un bell’applauso alla bara nella speranza che il defunto affronti l’Aldilà con la consapevolezza che non ha avuto nell’ Aldiquà.

Sconvolge di più la morte di persone che, per un breve tratto di vita, si sono trovate a percorrere lo stesso sentiero, a condividere i medesimi sogni, ad arrivare-nonostante tutto- al traguardo e a non poter raccogliere il frutto di tanta fatica.

Andrea, sul profilo di FB, sorride e brinda mentre Claudia rivela uno sguardo intenso, caldo, pieno; già dai loro volti si intuisce che sarebbero stati attenti, scrupolosi, a tratti ironici, più presidi che dirigenti.

Non ci sono più e ci inchiodano a quel destino umano che tendiamo a dimenticare: così urliamo, ci azzanniamo come cani pronti a dare il corpo del nemico in pasto agli avvoltoi.

E ieri, mentre girellavo per le vie presa da questi pensieri come solo ai vivi è concesso, ho appreso la notizia dell’arresto di un mio ex alunno:

“Davvero non lo sapeva? E’ successo qualche mese fa.”

“Ma non qui, vero?”

“No, ad XXX, era all’estero”.

Sono abituata agli arresti degli ex alunni, non è il primo e non sarà l’ultimo; crimini infantili che vedono l’utilizzo di pistole giocattolo, crimini irrispettosi, crimini per portar la ragazza a cena fuori in un posto decente, crimini.

Ma ieri non ero proprio in vena di arresti e ho chiuso gli occhi pensando al motivo che più mi spingeva a diventare dirigente: combattere quella dispersione scolastica che miete vittime nel primo biennio delle superiori. perché è lì che si perdono i ragazzi. Il biennio delle superiori in alcuni istituti è un limbo: i professori faticano a tenere le classi, i genitori faticano a gestire gli alunni, i ragazzi-considerati dei miti nei quartieri d’origine- si rendono conto che lì sono nessuno e agiscono la frustrazione con rabbia o, semplicemente, tolgono il disturbo e se ne vanno per strada.

Per questo mi rivolgo ad Andrea e Claudia, perché da lassù illuminino i cuori di quei dirigenti che sono troppo impegnati a difendere la fama di scuole serie e rigorose, a punirne uno per educarne cento.

E mi rivolgo anche ai nuovi dirigenti, specie a quelli che prenderanno servizio nella secondaria di secondo grado: non abbandonate i ragazzi di periferia, piuttosto proponete quei percorsi di apprendistato (e non di ri-orientamento) che li potrebbero davvero aiutare.

Si tratta di una battaglia importante che molti tendono a dimenticare e che gli insegnanti si trovano a combattere da soli: se un ragazzo non viene a scuola, andatelo a cercare.

Devo dare atto che, nel caso di Verona, questo si fa; a Verona i baristi che accolgono minorenni in orario scolastico pagano una multa ma nel resto d’Italia non è così: non è così a Genova. Anzi accade che questa, come tante città d’Italia, si comporti da madre con alcuni ragazzi e da matrigna con altri; si sa, Genova è una città lunga e difficile ove turchino e smeraldo si snodano aristocratici e sereni sulla costa mentre, dalla collina, incombono violenti, come nembi autunnali, pronti a esplodere, i casermoni dei quartieri popolari.

Le scuole superiori e la borghesia cittadina per il momento non se ne curano (ci sono già le scuole di quartiere, i presidi culturali dei ghetti per i quali, però, valgono le regole delle altre scuole e le sovvenzioni diminuiscono di anno in anno) ma, prima o poi, si troveranno fare i conti con questa realtà che preferiscono negare fingendo di non vederla.

Eppure le tessere di un tessuto urbano si intersecano e, se si incontrano, traggono forza le une dalle altre in modo da appianare le differenze; se invece si ignorano o si scontrano, quelle fortificazioni invisibili ma per ora solide, saranno destinate a cadere radendo al suolo tutto.

Chiedo dunque ai nuovi dirigenti di parlare con chi è a disagio perché la parola di un capo d’istituto è più forte di quella di un coordinatore di classe, di trovare soluzioni positive, di spronare i docenti a segnalare le assenze per tempo e non solo quando queste hanno superato il limite consentito; chiedo di non sospendere i ragazzi ma di includerli, di non pretendere che tutti conoscano “il Programma” ma di considerare che, nella nostra penisola, esistono luoghi in cui non valgono le leggi del resto d’Italia.

Se qualche dirigente avesse cercato, parlato, agito -anziché gettare la spugna- forse oggi nelle carceri straniere ci sarebbe un Italiano di meno e a scuola un ragazzo in più.

Alessandra Giordano


Hybris e incuria: dal Ponte all’abisso

Il ponte è, da sempre, emblema di lotta tra l’uomo e la natura: l’intelligenza sfida col calcolo, con la magia dei numeri, la Creazione.

In questo senso il Ponte Morandi è pura hybris, tracotanza a scadenza, come Cenerentola al ballo.

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Bambino fuggito dall’Acquario è in autobus a Pra: scatta la solidarietà del CEP.

L’autobus è fermo e i carabinieri sono dentro: un bambino è fuggito dall’acquario e si è ritrovato in autobus a Pra.

Cosa è accaduto?

Sole e vento rendono il pomeriggio particolarmente piacevole, si ha voglia di immergersi nella brezza di un maggio piuttosto capriccioso, di uscire e di non pensare a nulla; che importa che un bimbo sui dieci anni si sia perso? Meglio continuare il viaggio e far finta di nulla.

Jpeg

Alcuni ragazzini però si accorgono di quel bambino un po’ troppo cresciuto per girare con una trombetta tra le mani e cominciano a porsi qualche domanda.

Il bambino non parla. Forse non è italiano? Le ragazzine del gruppo avvertono l’autista che chiama i carabinieri.

Il capitano sale e verifica la situazione: il volto del bambino coincide con quello del ragazzino che è fuggito dall’Acquario.

La pattuglia blocca il mezzo e decide di attendere i genitori: il bambino non parla e non vuol essere toccato; alcuni passeggeri si lamentano: pretendono che le forze dell’ordine si portino dietro il bambino.

Qualcuno dice che è domenica e che gli autobus passano ogni sedici minuti; in effetti muoversi dal Ponente genovese nel week end è cosa complessa, pare quasi che  la Giunta non sia toccata dal problema: che la periferia resti lì senza pretendere troppo!

Del resto, da queste parti, ci sono le Lavatrici e il CEP!

E qui sta il punto! I ragazzini e le ragazzine che hanno soccorso questo bambino sono del CEP e sono di una fascia d’età compresa tra i 13 e i 17 anni; non vanno bene a scuola, alcuni di loro sono stati bocciati più volte e in classe non riescono a seguire.

Di loro si parla come di casi persi, di lost, nel migliore dei casi di perditempo. Li conosco molto bene ma non scrivo i loro nomi perché sono tutti minori e molti sono stati miei alunni.

Oggi mi sono sentita molto orgogliosa di loro perché hanno dimostrato conoscenze e competenze di cittadinanza non comuni: chi lo ha tranquillizzato, chi lo ha coccolato, chi lo ha ripulito con un fazzoletto dal gelato che gli era stato offerto

.

Sono rimasti lì, non se ne sono andati perché sanno riconoscere le cose importanti.

Le giovani generazioni non sono dunque prive di speranza, non ci solo solo terribili allievi che bullizzano i professori ma cuori segreti che, pur con il loro bagaglio di sofferenza, sono in grado di aiutare chi è in difficoltà.

Ragazzi, continuate così!

Rosa Johanna Pintus

 


Noi col CEP non abbiamo nulla a che fare!

“Noi col CEP non abbiamo nulla a che fare” oppure “Visto? Era un marocchino!”. Un atteggiamento simile è offensivo e inaccettabile! Dell’eroe però non si parla, e l’eroe era un cepparo! E’ così scomodo ammetterlo? Già, perché nessun altro avrebbe reagito; la gente, in un altro quartiere, avrebbe atteso la polizia o, ancor peggio, sarebbe stata zitta.

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