Chegue, operazione Pandora-giallo distopico

Chegue è bagnato, disperato, arrabbiato:

<<Dio quanto piove! Pur di non farmi stare al computer, quei due folli mi fanno lavorare sotto l’acqua! Che estate di merda, che estate di merda! Che poi che faccio di male? Gioco a Shadow’s War, come tutto il resto del mondo. Mia madre questa cosa qui non la può proprio capire, sono troppo lontano da lei.

Lei è una guerriera?

No, io sono un guerriero e questa vita mi fa schifo. Il vecchio mi costringe a lavorare, vuole che io faccia una vita uguale alla sua: caffè e partito. Che poi, che democrazia è il Partito? Cambia il nome, cambiano le facce in TV; ci illudiamo di eleggere ma poi vincono sempre Loro. Loro chi? Dice Low Snow. Non lo sa nessuno. La democrazia della mediocrità.>>

L’acqua aumentava, non dava tregua. Chegue si chiese se piovesse anche sopra il ponte, nella Città dei Superi, o se lassù fosse stato eliminato anche questo inconveniente. Ricordava che, quando era bambino, la città aveva un assetto completamente diverso: non c’erano ponti di vetro che inneggiavano alla Trasparenza.

Trasparenza? Una volta aveva visto un film di infima categoria sull’argomento, il concetto però non era malvagio: trasparenza come sinonimo di controllo.

<< Io sono un guerriero, su Shadow’s War e nella vita! Mi ha accusato di razzismo mio padre, solo perché ho tirato un pugno a un negro; il fatto che avesse le mani sul culo della mia compiacente sorella non ha sconvolto i miei, assurdo. Secondo me gli brucia la mia militanza, non il mio debito scolastico.>>.

Chegue lavorava con rabbia e si chiedeva perché gli adulti che lo circondavano fossero così stupidamente distruttivi: lo consideravano un bambino nonostante lui avesse già avuto le sue prime esperienze, lo consideravano un fallito perché non aveva la media del dieci. Lui, figlio di una professoressa in carriera, si era permesso di avere il debito d’italiano!

Nessuno si era posto il problema del perché i suoi temi fossero stringati; gli avevano detto che non sapeva scrivere, che avrebbe dovuto crearsi delle mappe concettuali ma la verità pura e semplice non l’avevano capita: non aveva nulla da dire a quella professoressa! Non che fosse cattiva, era pure carina ma, Chegue questo non poteva proprio accettarlo, era imbelle. Come tutta la sua categoria. I professori si sentivano fortunati perché il Governo pagava loro la casa, i libri, la divisa. Lo stipendio invece serviva per cibo e bollette; i più furbi, come la mamma di Malù, avevano un doppio lavoro. E infatti Malù aveva abiti firmati e se la tirava da artista: Chegue lo odiava e il colore della pelle non c’entrava proprio nulla.

<< Io voglio combattere e voglio ribaltare questo Paese che mi opprime, che si sta spegnendo! E dire che mio padre mi ha infarcito la testa di Avengers ma ora si lamenta! Voglio lo Stato Sociale, lo ammetto! Altro che uguaglianza, comunismo e cristianesimo. Voglio lo Stato Sociale e basta. Ma questo i miei, che mi hanno chiamato addiritture Chegue, non lo possono accettare. Voglio un leader che si veda, un esercito in cui arruolarmi, una terra al sole da coltivare, una donna bella ed obbediente. Il resto è merda! Io sono un guerriero, un figlio del Sole.>>

<<Chegue! Muoviti che ci stiamo scolando, dai; passami quei cartoni!>>.

<<Dove li portiamo?>>.

<<Lì, in magazzino; dai veloce che tu te ne vai a casa! Troppi tuoni, troppi lampi. E quel ponte è sempre più usurato. Sai, mia moglie non lo vuole mai percorrere, le dà ansia! Va’ a casa, non sia mai che abbia ragione!>>.

<<Il ponte è orribile!>> pensa Chegue << Mi chiedo come si possa concepire un’opera del genere! C’è tanta ingiustizia su quel ponte: sopra chi produce, sotto chi non ha nulla; ovviamente noi siamo quelli che stanno di sotto!

Forse non siamo proprio gli ultimi perché, sotto di noi, c’è il ghetto: una città sotterranea, priva di luce solare, in cui l’odore di panni umidi si mischia a quello del vomito dei tossici.>>

Un lampo illumina di mille colori il ponte di vetro che diventa bellissimo, la luce lo percorre come un’onda danzante e lui lo guarda. Poi è di nuovo rabbia: quel ponte va distrutto. Perché lì sotto e nella città sotterranea si sta troppo male.

<<La città sotterranea…ci accompagno ogni tanto Rob che spaccia Fentanyl e MDMA.

Vuole che lo copra, dice che lì ci vive gente poco raccomandabile. Quando gli faccio notare che lo spacciatore è lui, Rob mi rimprovera>>.

<<E’ il MILP che mi ha offerto questo lavoro, sono in regola e anche loro sono in regola! Lo spaccio è cosa antica, se ci fosse stato il Governo Trasparente qualche anno fa, mio padre non sarebbe morto in carcere ma sarebbe stato considerato un imprenditore.>>

<<Ti sei mai chiesto, Rob, perché questo traffico sia legale solo nel ghetto sotterraneo?>>

<<Così dice la legge e io ci guadagno: non mi pongo domande, c’è chi pensa per me e, quando avrò tanti soldi, andrò a vivere sopra il ponte in una casa esposta a sud est, ho bisogno di sole.>>

Chegue si chiede che cosa lo renda amico di Rob, a parte le grandi fighe che rimorchia ogni sabato sera. Eppure, nonostante il fatto che lo ritenga un cretino borioso, spesso si ritrova ad accompagnarlo nella sua singolare attività.

Guarda il ponte, vorrebbe che cadesse, quel mondo precluso ai più, in mille frantumi. Una volta è andato in gita con la scuola nella Città dei Superi, è un posto incredibile e pieno di fontane colorate; le case sono in vetro e, sopra il tetto, hanno giardini ricchi di frutteti. Arrivare lassù è l’obiettivo di chiunque:

<<… anche di mia madre che, da quando il MILP ha bandito il concorso per dirigenti, non fa altro che studiare.

Le dico di lasciar perdere ma lei ritiene che con lo studio si possa conseguire qualsiasi risultato. Lei e mio padre sono convinti, come tanti della loro generazione, di vivere in una democrazia ma non è così.

In effetti, rispetto a quando ero piccolo, in apparenza non è cambiato nulla, a parte la città, ma la sostanza è profondamente diversa: quello che io chiamo Stato è poco più che un distretto; lo ha detto Jam ‘u Tuz, lo you tuber che seguo>>.

Più che un ponte quello che prima o poi cadrà pare un tempio: ordina e dispone.

Ennio entra nel magazzino, io scendo verso il negozio di Sergio, forse ha bisogno di un aiuto.

Entra.

Da quando ha litigato con i suoi, quella per lui è una seconda casa. Sergio non è un semplice rigattiere: recupera mobili in disuso e, a suo modo, li restaura. A suo modo è un artista incapace di dimenticare il mondo in cui è nato: l’Argentina.

Così carteggia, dipinge e lucida seguendo le venature del legno. I mobili riacquistano vita, Chegue lo aiuta, gli cura il sito e impara qualche lavoro utile. I suoi non lo sanno perché Sergio è addirittura peronista mentre i suoi sono di Sinistra. Anche se suo padre si finge inglobato nel Partito, non riesce ad abdicare dalle sue posizioni.

<<La Sinistra, a casa mia, è come la Chiesa: può aver fatto qualsiasi cosa che viene percepita come sacra. In effetti, ultimamente, è addirittura ieratica e la vedo dissolversi in un mosaico privo di dimensioni.

Wow! Che parolone. Con i miei non mi escono, non se lo immaginano neppure che mi piacerebbe fare il critico d’arte: intelligente e maleducato perché me lo potrei permettere data la mediocrità del mondo.

La mediocrità: il vero danno della democrazia è stata la mediocrità. Rob ha ragione: non bisogna permettere a tutti di pensare, certa gente non è in grado di pensare ma è solo capace di eseguire.

Per questo ho scelto I figli del Sole!>>

<<Buongiorno mio giovane camerata!>>

<<Buongiorno Sergio!>>

<<Che ne dici di un caffè caldo?>>

<<Mi ci vuole.>>

<<Allora, sei sempre in punizione?>>

<<Dai, non prendermi in giro! Sono l’unico sfigato che lavora in una giornata simile. Senti, ti aiuto a tirare dentro i mobili.>>

<<Già, da solo sarebbe stato impossibile. Ti sei riappacificato con tuo padre?>>.

<<Mio padre è uno di quelli con la verità in pugno: si può discutere con uno così? Qualsiasi cosa io dica è sbagliata.>>

<<E tua madre?>>.

<<Mia madre studia, si è convinta di poter superare il concorso.>>

<<Be’, la prima parte l’ha passata.>>

<<Se è per questo l’ha passata anche Greta!>>

<<La madre del negro?>>

<<Sì. E’ chiaro per me: si tratta di una finta per illuderli della possibilità di avanzare nella scala sociale ma non sarà così.>>

<<Cosa te lo fa pensare?>>

<<Il cervello>>.

Rosa J.Pintus

Operazione Pandora: Greta, giallo distopico

Greta lavora in un locale notturno…giallo distopico di Rosa Johanna Pintus

Greta li vide mentre Katia le sistemava sulla schiena la cerniera del tubino magenta:

<<Ormai sono sempre qui, qualcuno è innamorato di te.>>

<<O di te, Katia, che balli divinamente.>>

<<Non credo, sono troppo fini per il mio genere.>>

Greta cercò di non ridere, si stava facendo il contorno labbra ed era già in ansia per l’operazione più difficile: le ciglia finte.

<<Katia, ti prego! Non farmi ridere mentre mi trucco, è sleale!>>

<<Lascia stare tesoro! Te le sistemo io. Ma che problema hai con le ciglia?>>

<<Che se mi tolgo gli occhiali non vedo l’attaccatura!>>

<<Non ho mai capito come tu riesca a incantare il pubblico con sguardi ardenti senza vedere nulla!>>

<<Non sono miope, sono astigmatica.>>

<<Dai, andiamo.>>

Dei tre uomini entrati nel locale, pensò Greta, il capo doveva essere quello a sinistra, il più panciuto, con i peli che lottavano per spuntare dai gemelli; portava la fede ma pareva interessato alle avventure, un piccolo vezzo che probabilmente gli era concesso da una moglie già abbastanza soddisfatta dalla posizione economica. Gli altri due erano più giovani di una decina d’anni: quello coi capelli neri, ben rasati ma non eccessivamente corti, aveva un sorriso da squalo mentre l’altro, il biondo, si atteggiava a bel tenebroso con il ciuffo mosso che gli cadeva sugli occhi e l’abbigliamento alla Dick Tracy.

L’uomo dei gemelli estrasse alcuni fogli dalla ventiquattrore e i tre cominciarono a confabulare in maniera concitata; Greta non riusciva a capire se appartenessero al mondo dell’alta finanza o a quello della politica, li temeva per istinto ma se li ritrovava lì ogni sera.

Il padrone la chiamò:

<<Ascolta, Greta, mi hanno chiesto di te.>>

<<Chi?>>

<<Quei tre; portagli un po’ da bere.>>

<<Io non faccio la cameriera, io canto!>>

<<Professoressa, se vuoi mantenere il posto, fai come ti dico perché quelli sono del Ministero e io non voglio casini!>>

<<Di quale ministero?>>

<<Del MILP!>>

Greta non commentò, il MILP era il ministero dell’impiego e del lavoro, braccio destro del Governo della Trasparenza e aveva il potere di innalzarti o ridurti allo stato di paria.

La donna non poteva rinunciare a quel lavoro, le serviva per arrotondare lo stipendio e per poter aiutare suo figlio; il ragazzo, pur senza una figura maschile, era cresciuto con sani principi e, come lei, aveva dimostrato fin da piccolo una forte passione per la musica. Ora, a vent’anni, veniva chiamato a suonare il sax nelle più famose località turistiche, complice del suo successo erano quella chioma saracena e quegli occhi verdi che parevano stregare il mondo. Questi viaggi erano però incompatibili con lo stipendio di Greta, insegnante di musica presso una scuola media, e con lo stipendio del figlio perché un conto è essere famosi, un conto e essere ricchi; così lei aveva continuato a cantare e a farsi pagare in nero da Oscar, padrone del locale.

Nei momenti di sconforto ripercorreva le tappe della sua vita: ragazza- madre con un figlio mulatto in un Paese razzista.

Concepito in un villaggio turistico quando lei aveva diciassette anni, Malù era figlio di un cameriere nigeriano che Greta aveva amato follemente; dopo l’estate i due non si erano più visti perché Samson, non riuscendo ad ottenere il permesso di soggiorno, aveva chiesto asilo politico in un altro Stato.

Greta aveva comunque deciso di tenere il bambino e di utilizzare in modo più commerciale il proprio corpo perché, finché si dà del proprio, tutto è lecito.

Con gli anni la sua vita aveva preso una piega migliore: era riuscita a laurearsi e a superare il concorso per l’insegnamento ma lo stipendio le consentiva di vivacchiare, non di vivere.

Portò i cocktail al tavolo e il biondo le posò subito la mano sulla gamba. Greta si irrigidì ma quello, come se il suo ardire fosse legittimo, le chiese:

<<Cosa mi canti stasera, Greta?>> e la mano salì ad accarezzarle i fianchi.

<<E’ una sorpresa, signore. Se mi lascia, posso andare a prepararmi.>>

<<Ci vediamo dopo,cara.>>

Greta gli sorrise, turbata e infelice.

<<Una bella bambola, non c’è che dire;>> disse l’uomo grasso <<ma credo che ti darà picche.>>

<<Forse stasera sì; tuttavia saprò convincere Oscar in modo adeguato.>>.

<<Lavoriamo ragazzi! La fase uno è conclusa e qui ci sono i nomi dei concorrenti passati: 9000 e ne devono restare 2370 per il settore educativo e 1000 per la Sanità. Idee? Commenti?>>.

Il biondo si tolse gli occhiali da miope e guardò il capo: <<Se togli i posti già assegnati, ne devono restare cinquecento: duecento per la Scuola e trecento per la Sanità.>>

<<E’ vero, Louis; 500. Ma quali?>>

<<Rudolph, hai fatto un ottimo lavoro con quei social, li possiamo osservare da vicino e decidere con calma; basta dare prove abbastanza generiche che possano essere svolte da tutti.>>

<<Bisogna essere scaltri>> disse Louis, il biondo, <<sono persone preparate, se sbagliamo qualcosa se ne accorgono.>>

<<Non mi dire che temi quattro inermi professori! Se anche se ne accorgessero, cosa potrebbero fare?>>

<<Per un aumento stipendiale? Qualsiasi cosa!>>.

Greta cominciò a cantare con quella sua voce morbida e sensuale:

<<Southern trees bear strange fruit
Blood on the leaves and blood at the root >>

<<Assolutamente fantastica>> disse Rudolph <<corpo e voce sono un unicum, vecchio mio!>>.

<<Il jazz è poesia; quella donna poi m’incuriosisce: sembra così sola, così fragile!>>

<<Fragile? Te la immagini così? Quanto sei lontano, amico mio!>> disse l’uomo grasso.

<<Perché? La conosci?>>

<<Se non erro, quella è Greta Hembert, l’insegnante di mio nipote.>>

<<E che ci fa qui?>>

<<Cerca di vivere. Come fanno molti altri.>>

continua…

La metafisica della lingua e la democrazia

La lingua è una questione metafisica?

Ho riflettuto su questo,ultimamente, poiché punzecchiata da insigni docenti per l’uso improprio, a loro dire, del condizionale.

Il casus belli è stato provocato da una lettera pubblicatami da Orizzonte Scuola riguardo il concorso per il reclutamento dei dirigenti scolastici.

Di tale lettera, della quale ho inserito il link per non essere prolissa, mi viene contestato il seguente periodo:
Che il concorso non sia stato trasparente è innegabile: ci sono le prove, ci sono due inchieste dell’Espresso e non credo che professionisti simili scriverebbero il falso.

La risposta immediata della controparte è stata:

Lei non sa usare il congiuntivo.

Mi pareva abbastanza chiara la mia intenzione di sottintendere la protasi se non avessero prove certe, ma evidentemente non è così: la nostra società è fragile, se non vede certezze non le può afferrare e le sinapsi faticano a cogliere ciò che non viene esplicitato.

Però, in questo caso, chi mi ha attaccato, non è uno sprovveduto ma è una persona che sicuramente sa di latino.

Tuttavia io non ci sto a passare per una che non sa il congiuntivo: io adoro il congiuntivo perché, in una società ricca di false certezze, è un modo verbale che esprime incertezza e possibilità.

Secondo l’antagonista quel condizionale è un errore, anzi, un orrore.

Perché?

Come sempre in questi casi mi viene in soccorso Tullio De Mauro che col trattato “L’educazione linguistica democratica” provoca il crollo dell’Accademia della Crusca.

La lingua, secondo De Mauro, è biologicamente flessibile in virtù della sua componente diastratica, diafasica, diamesica.

Però, ed è questo lo spunto interessante del linguista, le classi dominanti hanno interesse a difendere la staticità, l’immobilità della lingua scritta riportata per motivi di sintesi sulle grammatiche.

Non c’è nulla di più facile che ridurre la grammatica a un mero esercizio di potere, a fare segni blu sono capaci anche gli insegnanti meno preparati.

Un insegnante non studia la grammatica, studia il Devoto, il Radice, il De Mauro e fa riferimento alle Dieci Tesi, documento più che mai attuale in una società come la nostra.

Seguire una forma pulita, asettica, morta e limitarsi a riempirla di contenuti non è difficile, è un puro esercizio di esecuzione che ho portato avanti per i cinque anni di liceo classico.

Poi ho scoperto Virginia Woolf e il suo Orlando, James Joyce, Anais Nin e Christa Wolf e mi sono resa conto che la potenza espressiva di una prosa spezzata, strappata, rivoltata è maggiore rispetto a quella di un periodare perfetto.

Certo: bisogna saperla usare, avere gli strumenti per interpretarla ma non tutti li possiedono, neppure nel corpo docenti.

La perfezione della forma è la negazione della letteratura: Verga, Manzoni, lo stesso Camilleri usano una prosa codificata?

Non mi pare: giocano con le parole, danno voce ai personaggi, descrivono-attraverso l’uso consapevole della lingua-gli ambienti.

Infine rispondo alle ultime accuse: quella di esprimermi per pensierini, di non saper interpretare un testo, di essere l’esempio di una classe insegnante mediocre.

Verificare se il compito scritto risponde alla costituzione di un formulario statico è cosa che può ottenersi agevolmente: ciò nasconde la necessità di adeguarsi alla necessità linguistica della classe dominante. Si tratta però di una tendenza all’addestramento monolinguistico che però è arbitraria e deriva dall’esigenza di classificare il tutto.

Questa è una comprensibile e apprezzabile necessità, non la verità.

Il glottodidatta monolinguista lo sa ma tace.

De Mauro usa parole difficili, volutamente provocatorie; critica la tendenza degli insegnanti e dei linguisti a presentare l’ideale platonico della lingua senza sottolinearne le potenzialità espressive e senza analizzarne il contesto sociale.

Mediocri, per conto mio, sono quegli insegnanti che si limitano alla lettura dei manuali o delle antologie.

Mediocri sono quegli insegnanti che spiegano gli autori senza averli mai letti.

Mediocri sono quegli insegnanti che non vedono l’errore come parte di un percorso di apprendimento ma scherniscono gli allievi nelle loro debolezze e li umiliano.

La lingua perfetta tranquillizza i conservatori e i mediocri, la lingua in evoluzione è espressione di democrazia e di ricerca.

La pretesa di una lingua statica, spesso incomprensibile, ha ucciso in questo Paese la democrazia e ha aperto le porte agli slogan semplificati e ha consegnato il Paese ai peggiori populisti.

Rosa Johanna Pintus

La favola dei topi e del formaggio

A Valerio Mancuso con affetto.

Prima di raccontarti la favola dei topi e del formaggio, caro Valerio, voglia tu apprendere in quali circostanze l’ho ascoltata e capirai come le ragioni di un ricorso o di un esposto possano essere valide e giuste.

E anche se la necessità ci conduce ad essere gli uni topi e gli altri gatti, le mosse dei padroni risultano essere dettate dalla casualità e non da un’attenta analisi dei fatti.

Così chi viene coccolato prima, non è raro che cada in disgrazia poi.

Il mio professore di greco era un tipo del tutto singolare: serissimo nello svolgere la materia, ferreo e giusto nei voti, inveiva però contro quella maledetta norma che gli impediva di fumare in classe.

Sicché, ora per sfida ora per impellente necessità, soleva tenere un mozzicone appena spento tra le labbra pregustando l’agognata pausa sigaretta.

Ed era così pregno di nicotina che lo avevamo nominato Baffo Giallo.

Non che questa fosse la sua unica particolarità: amava tradurre ma detestava assegnare i temi perché lì gli studenti divagavano in mille discorsi : preferiva l’aoristo che leniva ogni male.

La sua avversità per la prova scritta d’italiano era manifesta già dai titoli, si variava da “E’ meglio illuminare un angolo buio che una pagoda cinese di cinque piani” a “Spingere una canoa nella melma non è così difficile quanto sembra” fino al più temibile di tutti: “Pizza pazza cerca pizzaiola“.

Fu un titolo che io, quattordicenne con gli occhiali e la faccia da bimba, depressa già dal fatto che le mie compagne avessero le tette ma soprattutto il ragazzino, accolsi con un gran pianto.

Fu lì che capii il valore rassicurante dell’aoristo sigmatico.

Fu in quel caso che Baffo Giallo mi disse: <<Suvvia, signorina, non pianga! La conosce la favola dei topi e del formaggio?>>

E, come insegna Esopo, comincio così:
λέγεται …si narra che due topi molto ingordi avessero visto una pentola piena di latte. Spavaldi e veloci, nonostante il gatto di casa ancora non dormisse ma si facesse coccolare dalla padrona, decisero di agire.

<<Prrrr, prrrr>> godeva il gatto, <<Bello micione>> diceva la padrona beandosi e perdendosi in quel pelo folto e lucido.

Rapidi i due soci riuscirono a spostare il coperchio ma il gatto rizzò la coda in allerta per gli insoliti scricchiolii della cucina.

Quelli, spaventati, facendo leva con il muso, lo fecero cadere e il rumore richiamò il peloso gattone.

<<Mmeeeeo>> disse il gattone, <<Squiiiit>> gridarono i topi terrorizzati, <<Splash!>> fece il latte.

La padrona vedendo tutto a soqquadro redarguì il gatto.

I topi lo sbeffeggiarono e risero perché la donna, sicura e boriosa, accusava il gatto per il coperchio rotto ma non guardava la pentola.

Sazi e satolli per il latte ingurgitato, dopo un po’ i due topi provarono ad uscire dal loro nascondiglio; il volume del latte si era però abbassato sensibilmente e le pareti del pentolone erano lisce.

<<E adesso come facciamo?>> chiese il primo piagnucolando.

<<Nuota, nuota: il dio Topolòn non ci abbandonerà.>> rispose l’altro che da sempre rispettava i sacri riti.

Così, lentamente, il latte si tramutò in formaggio e i due topi poterono uscire con un balzo e portarsi un piccolo pasto a casa.

Ὁ μῦθος δηλοῖ ὅτι (la favola insegna che) nelle circostanze avverse non bisogna perdersi d’animo ma occorre lottare uniti.

Oh be’, Baffo Giallo aveva narrato il tutto in due parole ma oggi questo sarebbe lo svolgimento di quel tema.

Cosa scrissi allora? Non ricordo. Certo è che Baffo Giallo mi ha insegnato a scrivere e di questo gli sono grata.

Rosa Johanna Pintus

Insegnanti:pesci o formiche?

Wenn die Haifische Menschen wären , se gli squali fossero uomini, comincia così una notissima pagina di Bertolt Brecht e mi sono svegliata canticchiando questo leitmotiv stamani, forse perché attendo fiduciosa la sentenza del TAR; tuttavia non vi parlerò degli squali, vi racconterò dei pesciolini.

E dunque se gli insegnanti fossero pesciolini, non avrebbero strumenti per farsi ascoltare: i pesciolini non hanno voce. Gli squali allora, secondo l’orientamento politico, potrebbero organizzare rassicuranti feste acquatiche per farli sentire liberi oppure potrebbero isolarli in acquari protetti valutando che, durante le feste acquatiche, pur non avendo voce, i pesciolini potrebbero comunicare tra loro e diventare sovversivi.

Gli insegnanti però non sono pesciolini, sono solo formiche che per tanto tempo si sono comportate da pesciolini.

Isolati.

Soli contro il bullismo, i genitori, il sistema in toto.

E la Scuola è peggiorata, franata, soprattutto si è perso il rispetto della figura dell’insegnante.

Alcuni di loro un giorno si sono resi conto di non avere pinne ma zampette forti: si sono messi a scavare per capire quale fosse la strada da percorrere per essere degni di rispetto e hanno incontrato altre formichine.

In quanto formiche, hanno abbandonato l’individualismo pigro che li aveva caratterizzati fino a quel momento e si sono riconosciuti collettività.

Si sono uniti e hanno cominciato a lavorare per capire, a capire per essere in grado di chiedere appunto rispetto e giustizia.

E potrei tediarvi con altre parole ma veniamo al punto: cosa ha reso gli insegnanti consapevoli del loro valore?

Il Concorso per DS.

C’è un pregio che nessuno ha ancora riconosciuto a questo concorso: la sua alta valenza formativa.

Per un anno ci siamo confrontati sulla pagina facebook di Mininterno: abbiamo gioito per  il successo nella preselettiva, abbiamo pianto e ci siamo scontrati dopo i risultati della prova scritta.

Il pianto è venuto dopo, in alcuni casi irrefrenabile, ma prima c’è stata la formazione: seria, instancabile, stoica.

Prima degli esiti ci siamo confrontati su diversi casi valutando le possibilità offerte dalla Normativa, abbiamo appreso il non semplice linguaggio giuridico e, dopo la prova scritta, per non abbandonare lo studio, abbiamo persino scritto un manuale: “Il bigino del DS”.

Per questo sottolineo che il concorso è stato, di fatto, la più grande esperienza di formazione che mi sono trovata a vivere, uno degli anni più ricchi nella mia carriera di docente: ora mi sento davvero consapevole del mio ruolo e delle ragioni profonde che rendono il MIUR non un’istituzione statica ma un laboratorio di ricerca continua.

Mi ha stupito non poco il mio voto sull’utilizzo della lingua italiana: 0,25. Perché? Nella prova ho visto imprecisioni che ero sicura di aver corretto, cosa non ha funzionato?

Mi sono sentita ferita e ho cercato di comprenderne le cause, mi sono sentita profondamente sconfitta e mi sono rialzata.

Non da sola, da sola sarei ancora lì: zitta e muta come un pesce.

Infatti durante il concorso/ formazione mi sentivo ancora un pesciolino, è stata la bocciatura che mi ha fatto riconoscere formica, come è capitato ad altri: formiche di diversi formicai, formiche coraggiose che hanno presentato un esposto, formiche che hanno preferito la via del ricorso perché qualcosa comunque non tornava.

Risultati immagini per immagini comitato

Così sono nati diversi comitati che si sono trovati ad agire in modo indipendente ma per qualche mistero sinergico, sono emerse abilità differenti che si sono attivate verso un unico obiettivo: la trasparenza.

Trasparenza che è, necessariamente, partecipazione.

PoliticaCultura



Vittorio Zucconi, à toute a l’heure-PoliticaCultura

Cosa potrei dire per ricordare Vittorio Zucconi? Forse in certi casi, essendo il defunto uno scrittore, è meglio lasciar parlare lui:


Il suo corpo è diventato erba della Prateria e solo il suo spirito vive. Io voglio essere con il suo spirito, non con le sue ossa.

E a quale libro appartiene questa citazione, ve lo dico dopo.

Mi sono innamorata della voce cartavetro di Vittorio Zucconi un pomeriggio, a Velva.

Ero solo una ragazza che leggeva libri, non perché mi piacesse realmente leggere ma perché ero troppo timida per giocare ai corteggiamenti. Il sesso lo imparavo da Ken Follet: era un sesso proibito che nascondevo nelle copertine di libri più tiepidi e, del resto, se si ha un maschio vivace come fratello, l’attenzione dei genitori non è sulle letture della figlia modello.

Sia Ken Follet sia Zucconi scrivevano di guerra fredda e libertà e mi parevano, in qualche modo, legati da una pari curiosità verso l’URSS e verso gli Usa.

Curioso, alla voce di Vittorio non collegavo alcun volto così come al viso di Ken Follet non riuscivo a dare alcuna voce.

Ciò che constatavo, estate dopo estate, era la mia personale maturazione intellettuale, non quella fisica, nonostante le foto che mio fratello mi faceva per darmi fiducia e per dimostrarmi che non ero l’ultima delle rane.

Ma in tempi in cui non esisteva instagram questa cosa, e cioè che non ero una rana, non poteva neppure essere testimoniata dai social!

Così restavo lì a consolarmi di voci e parole lontane mentre le altre ragazze si baciavano e vivevano d’amore.

Vittorio Zucconi era uno che aveva avuto coraggio: il coraggio di imparare profondamente una lingua diversa dalla sua, il coraggio di andarsene da uno Stato troppo stretto e molto vicino a deteriorarsi.

Fu, a suo modo, immigrato senza passare per Ellis Island e divenne naturalizzato americano.

Riuscì a vivere di scrittura, a essere giornalista a tempo pieno.

Scrisse romanzi dal linguaggio diretto, semplice, essenziale, preso forse dalla scrittura anglosassone: paratattica come una sceneggiatura.

Forse perché amava usare gli articoli di giornale per comunicare con gli adulti e i romanzi per parlare ai ragazzi.

Acuto, già in ““>Gli spiriti non dimenticano” racconta l’epopea dei Sioux e il destino di un popolo costretto a rinunciare alle proprie tradizioni:

Fratelli della Grande Prateria, ora voi dovete ricominciare la vostra vita e dimenticare gli insegnamenti dei vostri padri. Per diventare come l’Uomo Bianco e per imparare a vivere nel suo mondo, dovrete imparare ad accumulare cibo e ricchezza solo per voi stessi, e dimenticare i poveri e gli altri uomini, che non sono fratelli ma selvaggina da cacciare. Dovrete costruirvi una casa di legno e di pietra, e, quando la vostra casa sarà costruita, dovrete guardarvi intorno e cercare quale altra casa e quali ricchezza potrete portare via al vostro vicino. Perché questa è la maniera dei bianchi e questo è il mondo nel quale il nostro popolo ora dovrà imparare a vivere e sopravvivere.

Non è un caso che Vittorio si sia spento in questo momento d’italica barbarie,

à tout à l’heure…ora cavalcherai nelle praterie dei Sioux.

Silvia, do you remember?-politicacultura

Silvia, do you remeber…?” Mi sono trovata così, quasi per caso, a raccontare “A Silvia” ai miei allievi anglofoni e a osservare la comune radice di “rimembrare” e “to remember.”

Sono andata avanti nella lettura e nella traduzione della poesia. Perché distruggerla con una banale parafrasi in un italiano semplificato, orribile, lontano da qualsiasi poesia quando la lingua inglese le rendeva giustizia?

Silvia, do you remember when you was in life?

Il mio inglese è come il loro italiano, un po’ mi arrampico sugli specchi per tradurre e quindi dico:

Maybe: the moment in your mortal life.

Mi guardano perplessi e una ragazza afferma: she’s dead; so Liopard remember.

La traduzione diviene corale: sono tutti affaccendati e pare di trovarsi in un suk culturale in cui i nigeriani impongono il tono di voce, i francofoni sussurrano, gli ispanofoni e l’unico italiano si consultano e sono irrimediabilmente romantici:

Ma proffe, dice l’italiano, si amavano, no?

E chi lo sa! Not given! Ognuno è libero d’immaginarsi la sua storia, la sua Silvia e il suo Giacomo anzi potremmo…

Nooooo! No maestra scrivere questa storia come per Rinascimento!

Quando spiego letteratura in inglese o in francese taluni dissentono; in realtà questo metodo è utile per aiutare gli Italiani nel loro percorso di crescita: nella scuola tradizionale è di moda la CLIL, e noi-in CLIL costante- siamo fashion!

Lo dico sempre agli Italiani, in genere ragazzi a rischio dispersione (anzi, dispersi recuperati) che non hanno conseguito il diploma nella secondaria tradizionale: dovete svezzarvi con le lingue, fate pratica, non è detto che troviate lavoro qui.

Il CPIA non è una colonia allofona nel nostro Paese, è occasione di crescita corale per un intero territorio. I motivi che mi ha spinto a insegnare in questa scuola sono stati proprio la possibilità di utilizzare lingue altre, di confrontarmi con adulti su differenti visioni di vita.

Li faccio parlare in italiano, li faccio scrivere in italiano ma letteratura, arte e storia vanno affrontati in un altro modo: non si può ridurre il programma, occorre ampliare le conoscenze!

Urge, nell’integrazione, non limitarsi ai riflessivi.

Come?

Attraverso la lingua di chi si ha di fronte, perché quelli che hanno avuto la possibilità di studiare siamo noi e non loro.

Occorre, in itinere, accettare l’errore di ortografia se dietro c’è il pensiero; e le griglie? E l’esame? E che? E che? E che?

Non accettare l’errore, condannare l’errore, scandalizzarsi verso chi non capisce non è giusto: non vale la pena attraversare il deserto e il mare per scrivere ” sogno” e “sognio”, vale la pena di avere la chiave per accedere a Leopardi.

Se non lo si riconosce, l’italiano diventa quella siepe “che dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”.

Silvia, do you remember?

Et voilà, arriva il difficile e invoco lo Spirito Santo:
O Natura, o Natura,
Perché non rendi poi
Quel che prometti allor? Perché di tanto
inganni i figli tuoi?

Ehm… Nature for him is…

Guardo il francofono che conosce l’inglese e dico belle-mère e lui dice “ah, oue, mais pourquoi?

Elle n’est pas bonne, elle est dangereuse; mais elle ne veut pas etre dangereuse, she doesn’t care about anyone.

L’anglofono che capisce il francese-vivono insieme- dice: stepmother! Sì, ma ora bisogna spiegare perché. Se non riesco a tradurre, devo almeno spiegare il concetto chiave!

Leopardi non credeva in Dio, he didn’t believe in God.

Oh my God! You mean like old Greeks?

No! He thinks that God is illusion. Every things for him is illusion. Dio non c’è per lui: c’è la bad Nature e c’è la mente umana, human mind. Lui è hungry con la natura.

“Oh, he was poor!” ” No, perché è povero?””Allora perché ha fame?””No, he was in rage!” “Oh, maestra, you mean angry”.

Touchée. Quella parola lì la sbaglio sempre, alla fine ci siamo capiti. E andiamo avanti, fino alla conclusione, fino a capire che per Leopardi there is Nature and there is Mind.

Only the mind is not an illusion but only the mind creates illusions perché “io nel pensier mi fingo”.

Ma questa è un’altra storia ed è la prossima lezione.

E’ difficile anche in inglese, dice uno studente, it’s not a song (e siccome è un rapper aggiunge: oh…shit! detto sht perché non vuole farsi sentire ma scoppiamo tutti a ridere).

Non è una canzone, non è una canzone; sono pensieri, philosophie!

Lo dice un francofono, uno che ha studiato e che viene a scuola quando può perché la Comunità non gli paga più l’abbonamento dell’autobus. Ha cambiato tre comunità quest’anno: una perché è diventato maggiorenne, le altre due perché questi ragazzi vengono spostati come pacchi e l’unico elemento di continuità che hanno è la Scuola.

La canzone è il povero Pascoli con il suo ritmo e con la sua siepe che invece protegge e chiude.

Come l’Italia, che chiude i suoi porti.

“La terraferma Italia è terra chiusa” scrive Erri De Luca.

Rosa Johanna Pintus

Quella cadrega che tiene al caldo il culo-PoliticaCultura

La cadrega, quella di Aldo, Giovanni e Giacomo, ce la ricordiamo tutti.

Risultati immagini per immagini aldo giovanni e giacomo

Erano i primi anni di una Lega che portava ancora il riferimento Nord nel nome e nel simbolo, Bossi spopolava ma poteva anche essere oggetto di satira perché si era ben lontani da qualsiasi ipotesi di regime. E i comici, visto che nel mondo dell’arte non esistono barriere, provenivano da parti diverse di un’Italia unita.

L’Italia non era un esempio di politica, venivamo paragonati alla famosa Repubblica delle Banane ma nessuno, eccetto gli iscritti alla Lega Nord, prendeva sul serio questa fame di secessionismo.

Non piacevano i meridionali, non piacevano gli immigrati però, sicuramente, piacevano le donne belle, intelligenti, in carriera.

La cadrega, dopo anni di politica filoeuropea, torna alla ribalta e difende i nazionalismi più beceri: si ottiene l’autonomia, si sequestra impunemente la Diciotti, si confonde il reato con l’orientamento politico e, se questi fossero stati al governo nel 2001, anche il G8 di Genova sarebbe stato considerato normale.

E Di Maio si vende per una cadrega: il giustiziere puro diviene uomo di potere prima ancora di essere un politico.

Difende l’indifendibile, si regala a chi ritiene il Sud un serbatoio di voti ma lui ne perde e non se ne rende conto: comanda Salvini e lui ne è il delfino in un’Italia che puzza di nazionalsocialismo: via i migranti! via le proteste!via la musica straniera dalle radio italiane! via i professori meridionali e via le donne: che se ne stiano a casa perché rubano posti di lavoro!

E il PD, che non ha voluto difendere la cadrega coi pentastellati, guarda e tace.

Rosa Johanna Pintus

To kill himself to not die again-PoliticaCultura

To kill himself to not die again: the last solution, the last train. I’m writing english this evening also if my english is bad, I’m writing english because Italian people are deaf and they can’t hear. My worst english is better than my excellent italian if Italian people can’t see where they are going.

Then I hope that my friend, my blogger friend Maurizio Puppo, can translate my words for the French.

It was the 28 of January when a Nigerian boy, Prince Jerry, decided to kill himself.

Why? It’s difficult to enter into the mind of a boy hopeless. We know he was integrated and he helps migrants in the first welcome: he helps migrants in hospital, he works as a mediator because he knows two languages.

Despite his good italian, he his not renewed the asylum permit.

So, he hopes for humanitarian permission: nothing. In spite of voluntary service, in spite of integration Italian door is closed for him.

What do he thinks? Family, desert, slavery, job seem him useless: a travel towards the deep desolation.

We can’t know and now nobody can help him.

He is tired, mopish and he looks the train. He is afraid to go back, to see again Lybian lager.

The wheels of the train are big and he find a solution: to kill himself to not die again.

He trows himself under the train, he is 25 years old.

Low wants this but silence is a heavy stone.

Now Jerry is symbol of Salvini decree: a racist decree.

We are near Norimberga, do not look the other way.

Rosa Johanna Pintus

Studio su Baccanti, un mito che turba-PoliticaCultura


Perché riprendere un vecchio studio su Baccanti? Mi direte che, sicuramente c’è un fine politico. Why not? La cultura è di per sé politica, non bisogna dimenticarlo in questo periodo di barbarie ed Euripide ha sempre qualcosa da dire.

Ma non è solo questo, è più un bisogno di guardare il bello e il tremendo che, talvolta, coincidono.

Non mi basterà un articolo, questo è il punto di partenza che potrebbe servire a qualche curioso, a qualche maturando.

MANIA E MENADI

Diodoro scrive che in molti stati greci alcune congregazioni di
donne si riunivano ad anni alterni: erano le menadi. In quelle occasioni le
fanciulle nubili potevano portare il tirso e partecipare all’invasamento
delle donne più anziane.

Tali feste erano dette trieteridee perché avevano una scadenza biennale; si tenevano a Tebe, Opunte, Melo,Pergamo e persino a Creta . Esse contemplavano nel rituale orge femminili oreibasìe, cioè danze notturne sui monti a metà dell’inverno.
Il motivo di queste manifestazioni risulta incomprensibile per la
razionalità umana: molte popolazioni ballano per far crescere le messi
ma le loro danze si svolgono di giorno, non di notte, e di primavera,
non d’inverno .
I tardi autori greci ritenevano che queste danze avessero un
carattere commemorativo: le donne avrebbero imitato le menadi che
accompagnavano il dio nei tempi antichi.
Tuttavia, siccome prima della commemorazione ci vuole l’azione
effettiva, deve esservi stato un tempo in cui le menadi assumevano
realmente per poche ore del giorno, le caratteristiche implicite nel loro
nome.

Risultati immagini per la menade danzante

Manìa significa infatti follia, alterazione di coscienza.
La natura di quest’evento non è affatto chiara nel caso della Grecia;
se si osservano anche altre civiltà, ci si accorge dell’esistenza di
persone che trovano nella danza rituale un’esperienza religiosa più
soddisfacente e convincente di qualsiasi altra .

Esiste, al riguardo, anche un detto musulmano “Chi conosce la potenza della danza dimora in Dio” che conferma la funzione rituale dell’esercizio
muscolare.

INSOLENZA E FUOCO

L’insolenza delle Baccanti divampa come un fuoco, questa è una
vergogna di fronte ai Greci

Baccanti v.779
La danza è dunque contagiosa, si balla fino a cadere per
esaurimento.

Utile, per capirne la potenza è l’analisi della parodos delle Baccanti:

Beata la Baccante quando cade a terra sui monti, perché danza
sfrenatamente dal tiaso , indossano la pelle di una cerbiatta sacra,
mentre è in caccia del sangue del capro da uccidere, delizia del pasto
crudo, e si lancia su per i monti di Frigia, di Lidia, perché Bromio
intona il canto: evoè.


I versi, non facili, danno notizie su alcuni aspetti del culto menadico:
edùs è l’aggettivo apre l’ultima parte della parodos con una
suggestione di polisemie: il baccante può essere bello, dolce, felice.

Il termine può inoltre riferirsi a quattro soggetti: il baccante, la menade,
il sacerdote o addirittura il dio.
Pese pedose: l’espressione indica il compimento dell’estasi che si realizza
nell’uscire fuori di sé e nel lasciarsi cadere a terra; vi è poi una serie di parole che indica i capri uccisi:la carne divorata cruda è tipica del culto dionisiaco.
La tecnica espressiva di Euripide raggiunge qui uno dei momenti di
massima tensione interpretativa: le parole
chiave sono sottolineate ed esaltate dalla collocazione nel verso e nell’andamento musicale lirico .

I MOTIVI
La parodos riprende in chiave di preghiera i motivi del prologo, ma li
sviluppa secondo due linee prevalenti: una rituale, l’altra mitica.

La prima illustra la conseguenza della beatitudine per chi ha imparato a
vivere fino in fondo i riti del dio.
Questa linea si conclude con l’epodo in cui è illustrato il rituale
dionisiaco; la seconda recupera la profondità storica del mito: Frigia e Creta, Cibele e Rea,Coribanti e Cureti costituiscono le tre coppie di un mito che si dilata nello spazio e si precisa nella liturgia.
L’epodo è la sezione più ispirata sul piano stilistico: il deinon della
religione dionisiaca nella sua forza di creazione e distruzione, di vita e
morte, di ordine e caos, attraverso il movimento, la danza, la
particolare musica che sconvolge per il rumore e affascina con la
melodia.

LA FORZA ESPRESSIVA
Potenti sono le suggestioni visive e uditive, degne di una ripresa
cinematografica: si passa dai monti ai dettagli, il tirso, il grido, la
chioma gettata all’indietro in un selvaggio gesto di liberazione.
Alla resa stilistica erano correlate in larga misura la danza e la musica.
Le danze menadiche, di chiara derivazione asiatica, sono del tutto
differenti dalla sobria gestualità classica: eseguite per la maggior parte
da donne, esse richiamano gli antichi riti della fertilità; nel caso delle
Baccanti, queste danze, dovettero raggiungere un certo livello di provocazione agli occhi del pubblico.

LA DANZA

Gli slanci, i salti, i tour erano già presenti in altre tragedie di Euripide, ma Cassandra nelle Troiane eseguiva il suo folle imeneo per evidenziare una follia individuale. In Baccanti, o meglio, nel rito menadico, il danzatore annienta qualsiasi elemento personale per fondersi fluidamente con gli altri iniziati .
Elemento innovativo è la musica: dai vv. 120-134 si deduce la
presenza di timpani e flauti:

Rifugio dei Cureti e grotte divine di Creta che deste i natali a Zeus,
dove i Coribanti dall’elmo tricuspide crearono da una pelle per me il
tondo strumento che io porto.

Vi è dunque un antro segreto; il termine, di derivazione poetica,
ha la stessa radice della parola talamo, per cui suggerisce un luogo
consacrato al connubio con il dio.
Ai vv. 126-129 continua la descrizione:

E nell’ebbrezza del rito mescolarono al melodioso respiro del flauto di
Frigia e lo posero in mano alla madre Rea, perché con ritmico colpo
accompagnasse il canto.

Si tratta dunque, anche per quanto riguarda la musica, della fusione
del rituale frigio con quello cretese, avvenuto in seguito
all’identificazione di Rea con Cibele.
Il flauto frigio era simile al moderno oboe e non al piffero .

IL FLAUTO

L’origine dell’aulos si perde nei secoli, e si attribuisce al leggendario
Pan.
Vi erano diverse categorie di auloi: quelle corrispondenti al flauto
diritto e al flauto traverso vennero denominati siringes, quelli ad ancia mantennero il nome di auloi. Questi ultimi potevano avere l’imboccatura singola o doppia.
L’invenzione dello strumento è attribuita al musico frigio Olimpo
(750-700a.C.).
Nelle Baccanti assumono rilievo due oggetti di scena: il tirso,
strumento di prodigiosa fecondità e distruzione, e il timpano, simbolo
di festa ma anche di trasgressione e violenza sacrificale. La poetica
dell’oggetto trova riscontro in diversi momenti del teatro di Euripide.
Se, infatti, nel suo teatro il mondo diventa irriconoscibile perché i
segni cambiano valenza, c’è lo sforzo di attaccarsi alle cose concrete
individuate con oggettività.
L’oggetto-feticcio è una presenza emblematica che non solo è
destinata ad incidersi nella mente dello spettatore, ma attorno alla
quale si condensa una ambivalenza simbolica.
La parodos delle Baccanti mostra l’isterismo domato e posto al
servizio della religione, ciò che invece avveniva sul Citerone era
isterismo allo stato puro, il pericoloso bacchismo che scende come un
castigo sulle persone oneste e rispettabili e le trascina contro la loro
volontà.

La punizione sta nel crollo improvviso della civiltà sommersa
da forze ancestrali.
Dioniso è presente in entrambi i tipi di isterismo, egli è al tempo
stesso causa e liberatore della pazzia.
Si ravvisano alcune somiglianze fra la religione orgiastica delle
Baccanti e la religione orgiastica di altri paesi, che dimostrano che la
figura della menade è reale.
La prima somiglianza riguarda i flauti e i timpani descritti nella
tragedia e raffigurati nelle pitture vascolari greche: gli strumenti,
ritenuti orgiastici per eccellenza, erano usati anche per i
contemporanei culti asiatici.

Il secondo punto riguarda il portamento
della testa durante l’estasi: il gesto è presente in ben tre punti di Baccanti
(vv. 150,241,930); lo si ritrova in Cassandra scuote la testa nell’ Ifigenia in Aulide (v.758) e lo stesso fa Lisistrata nell’omonima commedia ( v.1312).
L’atto non è una convenzione puramente greca, lo si ritrova anche
nella danza sacra dei divoratori di capre del Marocco .

La descrizione del menadismo non può spiegarsi solo in termini di
pura immaginazione, ma deve essere spiegata in termini di realtà
sociale .

Di fatto, già dall’epoca classica, si desume che l’incontro con culture altre spaventa.

Rosa Johanna Pintus