La figura del padre in dialoghi di versi

a cura di Sergio Famulari

Nino, a mio padre

Quante cose mi hai insegnato, chiedendomi di capire,

spesso senza spiegarmi.

Hai sempre avuto una parola sola,

e arrivavi lì dove non immaginavo,

portandomici.Tra misteri

appena accennati, coincidenze,  tutele

e bevande ghiacciate,

mi asciugavi i capelli,

strofinandomeli dopo il mare,

che con te non faceva mai paura.

E il tuo titolo, “l’ingegnere”,

risuonava nelle strade e negli uffici,

senza mai ferire o ingombrare,

perché eri sempre con i deboli,

debole con i deboli

forte con i forti.

Quando ci siamo avvicinati,

dopo la mia fuga,

mi hai salvato 

raccontandomi di nuove strade,

scienza e fantasia

che raccoglievi nel tuo sentire “ sensitivo”.

Poi ti sei ammalato,

in quei bianchi corridoi e bui

ospedali,

ostinato e controcorrente.

Io non ho saputo proteggerti,

come hai fatto tu con me,

eppure il tuo ultimo sguardo,

ignoto, suadente ed indecifrabile 

lo hai regalato a me.

Rassicurandomi.

Dolce papà,

ci siamo tenuti la mano,

e mi hai trasmesso tutto, 

ma io ti devo dire ancora una cosa,

so che mi ascolti ancora.

Preparo io il caffè…….

Sergio Famulari

Infiniti sono stati gli autori e le autrici che hanno sentito il desiderio di dialogare con il padre, fosse o meno scomparso e questo desiderio si è fatto anche mio.

Troppo importante è per tutti noi la figura del padre ( e della madre), costante punto di riferimento, anche se solo in contrapposizione, nella nostra vita.

Immense, delicatissime ed ispirate sono le liriche che qui proponiamo, con scelta puramente soggettiva e giocoforza, quindi, incompleta ma doverosa considerando l’anno passato, i padri perduti, la normalità che ancora non giunge.

Ora che siamo prossimi al 19 marzo, festa del papà, le riflessioni da parte di scrive sono due : la prima è quella di amare il padre e tutti coloro che sono stati padri o punti di riferimento nella nostra vita; la seconda è questa, anche in considerazione della figura di San Giuseppe: di padre onnipotente ne abbiamo solo uno, per chi crede, tutti noi altri ci muoviamo a tentoni ma, se spinti dalla potenza dell’accettazione dei nostri limiti, saremo buoni padri (e buone madri).

Ed ora lascio la parola ai versi partendo da Stevenson, più noto certamente per i romanzi, che in questa poesia sembra voler giustificare al padre la scelta della scrittura.

Robert Louis Stevenson

Non dire di me che ho rinunciato

alle imprese dei padri e che ho fuggito il mare,

le torri che abbiamo edificato

e le lampade che abbiamo acceso

per chiudermi nella mia stanza

e giocare con la carta come un bambino.

Dì’ invece: nel pomeriggio del tempo

un figlio vigoroso  ha spolverato le mani

dalla sabbia di granito, e guardando lontano

lungo la costa mugghiante le sue piramidi

e gli alti monumenti catturare il sole che muore,

sorriso gonfio di gioia, e a questo compito infantile

ha dedicato, davanti al fuoco, le ore della sera.

Robert Louis Stevenson

Eugenio Montale, poeta del nostro territorio, scrive addirittura un poemetto: Voce giunta con le folaghe. L’ambientazione è quella del cimitero di Monterosso che diviene un limes tra le due dimensioni dell’uomo: quella terrena e quella ultraterrena.

Eugenio Montale

Poiché la via percorsa, se mi volgo, è più lunga

del sentiero

da capre che mi porta

dove ci scioglieremo come cera,

ed i giunchi fioriti non leniscono il cuore

ma le vermene, il sangue dei cimiteri,
eccoti fuor dal buio

che ti teneva, padre, erto ai barbagli,

senza scialle e berretto, al sordo fremito

che annunciava nell’alba

chiatte di minatori dal gran carico

semisommerse, nere sull’onde alte.

L’ombra che mi accompagna
alla tua tomba, vigile,

e posa sopra un’erma ed ha uno scarto

altero della fronte che le schiaragli occhi ardenti e i duri sopraccigli

da un suo biocco infantile,

l’ombra non ha più peso della tua

da tanto seppellita, i primi raggi
del giorno la trafiggono, farfalle

vivaci l’attraversano, la sfiora
la sensitiva e non si rattrappisce.

L’ombra fidata e il muto che risorge,

quella che scorporò l’interno fuoco

e colui che lunghi anni d’oltretempo
(anni per me pesante) disincarnano,

si scambiano parole che intenerito

sul margine io non odo: l’una forse

ritroverà la forma in cui bruciava
amor di Chi la mosse e non di sé,

ma l’altro sbigottisce e teme che
la larva di memoria in cui si scalda

ai suoi figli si spenga al nuovo balzo.

Eugenio Montale

Il dolore del ricordo percorre questi versi che sfociano addirittura in voci pascoliane:

– Ho pensato per te, ho ricordato

per tutti. Ancora questa rupe

ti tenta? Sì. la bàttima è la stessa

di sempre, il mare che ti univa ai miei

lidi da prima che io avessi l’ali,

non si dissolve. Io le rammento quelle
mie prode e pur son giunta con le fòlaghe

a distaccarti dalle tue. Memoria

non è peccato fin che giova. Dopo

è letargo di talpe, abiezione
                       che funghisce su sè… –

Eugenio Montale

La memoria è una voce che sembra andare e venire come le onde del mare e, se non fosse per la descrizione di un paesaggio così visibilmente ligure, l’atmosfera sembra quella disperata di Cime Tempestose. E ancora:

Il vento del giorno

confonde l’ombra viva e l’altra ancora

riluttante in un mezzo che respinge

le mie mani, e il respiro mi si rompe

nel punto dilatato, nella fossa

che circonda lo scatto del ricordo.

Così si svela prima di legarsi
a immagini, a parole, oscuro senso

reminiscente, il vuoto inabitato

che occupammo e che attende fin ch’è tempo

di colmarsi di noi, di ritrovarci…

Eugenio Montale

Anche un altro premio Nobel, Pablo Neruda, dedica una poesia al padre. A differenza di Stevenson, Neruda è uomo d’azione: perseguitato e probabilmente ucciso da un sicario di Pinochet, il poeta qui dialoga col padre “da uomo a uomo”.

Pablo Neruda


Terra dalla superficie incolta e arida
terra senza corsi d’acqua né strade
la mia vita sotto il sole trema e si allunga.

Padre, i tuoi dolci occhi non possono nulla
come nulla poterono le stelle
che mi bruciano gli occhi e le tempie.

Il mal d’amore mi tolse la vista
e nella fonte dolce del mio sogno
una fonte tremante si rifletté.

Poi… chiedi a Dio perché mi dettero
ciò che mi dettero e perché poi
incontrai una solitudine di terra e di cielo.

Guarda, la mia giovinezza fu un candido germoglio
che non si aprì e perde
la sua dolcezza di sangue e vitalità.

Il sole che tramonta e tramonta in eterno
si stancò di baciarla… È l’autunno.
Padre, i tuoi dolci occhi non possono nulla.

Ascolterò nella notte le tue parole:
…figlio, figlio mio …
E nella notte immensa
resterò con le mie e con le tue piaghe.

Pablo Neruda

Maria Luisa Spanziani coglie la luminosità e la dolce forza del padre ritraendolo in un ricordo importante.

Poetesse Italiane del Novecento: Maria Luisa Spaziani | Grado Zero

Maria Luisa Spaziani

Papà, radice e luce,
portami ancora per mano
nell’ottobre dorato
del primo giorno di scuola.
Le rondini partivano,
strillavano:
fra cinquant’anni
ci ricorderai.

Maria Luisa Spanziani

Il padre descritto da Salvatore Quasimodo è un padre che ruba, prendendola su di sé, la sofferenza.

Salvatore Quasimodo


Dove sull’acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. 

Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.

La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.

Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
“Baciamu li mani”. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.

Salvatore Quasimodo

Camillo Sbarbaro coglie il padre nell’atto di sgridare la sorellina, un atto necessario ma contrario alla sua natura.

A mio padre

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
che la prima viola sull’opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l’appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.

E di quell’altra volta mi ricordo
che la sorella mia piccola ancora
per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia avea fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l’attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l’avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo ch’era il tu di prima.

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t’amerei.

Camillo Sbarbaro

In Alda Merini infine il padre viene descritto attraverso un oggetto transizionale, il cappotto.


Il pastrano

Un certo pastrano abitò lungo tempo in casa
era un pastrano di lana buona
un pettinato leggero
un pastrano di molte fatture
vissuto e rivoltato mille volte
era il disegno del nostro babbo
la sua sagoma ora assorta ed ora felice.
Appeso a un cappio o al portabiti
assumeva un’aria sconfitta:
traverso quell’antico pastrano
ho conosciuto i segreti di mio padre
vivendoli così, nell’ombra.

Alda Merini

Buon San Giuseppe a tutti!

Sergio Famulari

Ai piedi della catena economica: la piscina di Pra’ e l’insostenibile costo del Covid 19

Genova- L’impianto vuoto, il silenzio, la voce scandita che pugnala il cuore. E la consapevolezza di Marco Ghiglione, il direttore del complesso sportivo, che tiene stretto tra le mani il frammento adamantino dei suoi sogni: ciò che resta, ciò da cui si dovrà ripartire.

Sono le due del pomeriggio e l’atmosfera è quella di un quadro di De Chirico: un luogo elegante, pulito, malinconico, solitario. Sorseggio il caffè e domando, secca, quali siano le prospettive di riapertura; Marco non ci gira intorno: fine maggio, giugno forse.

Queste restrizioni, accanite contro Scuola e sport, fanno male specie se comparate alla situazione di un anno fa:

“Questa volta è diverso. Il primo lockdown, più duro, era però emotivamente accettabile; questa situazione invece non ha senso.”Marco Ghiglione

Marco Ghiglione

Ha ragione; lì, davanti all’Acquacenter I Delfini, gli adolescenti ci passano i pomeriggi:“Giocano, scherzano, stanno insieme e creano assembramento ma non possono usufruire né di piscine né di palestre: oggi lo sport è un privilegio degli agonisti, non è più un diritto alla portata di tutti”.

Marco GhiglioneMarco non li biasima: almeno possono uscire, respirare, ridere.

Gli adolescenti Covid 19 hanno assistito, in nome di un’emergenza evidentemente mal gestita, a una graduale riduzione dei diritti di base: -no istruzione-no sport, -no diritto di perdere.

Già, perché nella carta dello sportivo esiste anche il diritto di perdere e non c’è scritto da nessuna parte che puoi fare attività sportiva solo se sei un atleta di interesse nazionale!

“Noi non alleniamo solo agonisti, non si può ridurre il valore formativo dello sport a una serie di gare e di punteggi. Sono molto preoccupato per le conseguenze di queste chiusure. In questi anni abbiamo portato avanti con impegno progetti dedicati alle categorie più fragili”.

Marco Ghiglione

In effetti in quest’impianto natatorio, fiore all’occhiello del ponente cittadino, convergono diverse vite, diverse storie: i bambini che devono imparare a nuotare, i ragazzini che non amano gareggiare ma desiderano costruire il proprio fisico, gli anziani e-soprattutto- i disabili.

“La scelta di chiudere palestre e piscine, dopo averle obbligate ad adeguarsi alle norme di sicurezza, appare incomprensibile e arbitraria. Per garantire gli standard sanitari richiesti abbiamo dovuto assumere personale: non solo addetti alle pulizie ma anche tutor in grado di aiutare i bimbi a cambiarsi  visto che, per evitare assembramenti, abbiamo dovuto impedire alle mamme l’accesso negli spogliatoi. Adesso queste persone sono in cassa integrazione ma i soldi arrivano una tantum”.

Marco Ghiglione

La piscina in questo momento è in perdita: i soldi accumulati in quindici anni di lavoro matto e disperatissimo sono finiti e Marco stima una reale e possibile ripresa nel 2023: la verità va detta! Tutti questi ristori, o sostegni secondo la neolingua del nuovo governo, sono fanfalucche e la povertà aumenta in modo incontrollato, si consideri che il 2020 conta cinque milioni di poveri in più rispetto ai nove milioni endemici.

Due giorni fa la speranza: Giorgia Meloni, leader dell’ormai unico partito all’opposizione in un’Italia in cui destra e sinistra hanno progressivamente perso identità e cultura politica, ha proposto, in un emendamento, la riapertura immediata di piscine e palestre:

“Chiediamo al governo di prendere in considerazione la riapertura di un settore allo stremo, quello delle palestre, delle piscine e delle scuole di danza, nelle zone bianche e gialle, secondo il rispetto dei protocolli in vigore.”

Giorgia Meloni

Gli alleati storici però non la sostengono, si girano dall’altra parte, si astengono mentre Sinistra e Cinque Stelle- che dovrebbero sostenere anche i lavoratori di settori diversi dalle banche- votano contro: il verdetto della Camera dei Deputati, con quei 217 voti contrari alla ripresa di attività che nel vecchio mondo erano quotidiane, lascia l’amaro in bocca:

“Non posso dire nulla, i contagi sono in aumento e io, a dirla tutta, ero preparato all’ennesimo no.”

Lo guardo, vorrei dirgli che in Polonia le cose non vanno diversamente. A fine settembre la mia amica Martha, insegnante di nuoto, mi ha mandato un messaggio disperato: 

“And I don`t understand why they closed only gym, swimming pool!”

Martha

L’Italia non ha tardato ad adeguarsi agli standard polacchi, anzi, ha fatto un passo in più: ha chiuso anche le scuole superiori.

Ormai lo abbiamo capito: l’Italia non è un paese per giovani e, nel giro di una generazione, gli MSNA (minori stranieri non accompagnati) in cerca di una qualche fortuna in terra straniera saranno i figli dei nostri figli, a meno che qualcosa non cambi

.Intervista a Marco Ghiglione: Tra regole e assurdità

Alessandra Giordano

La parola ‘bitch’,nel trap è accettabile?

Benedetta Paccamiccio

a cura di Benedetta Paccamiccio

Bitch significa cagna e non in senso animale ma volgarmente metaforico. Eppure questo è uno dei termini più utilizzati nel dissing trap, un genere di musica che si diffonde con facilità tra i giovani.

Questo nome sta di indicare un sottogenere del genere musicale ‘rap’,che si è sviluppato a partire dagli anni ‘90 del Novecento nei quartieri meno abbienti degli Stati Uniti ma, a differenza del rap che è legato a rabbia e revanchismo, il trap affonda le sue radici nel mondo della droga.

Questo genere di musica ha portato con sé delle nuove caratteristiche facendo rimanere senza parola gli artisti delle altre correnti musicali, proprio perché presenta degli elementi molto più crudi e reali rispetto ai temi da melodramma che riscontriamo nelle canzoni attuali.

Caratteristica del trap è sicuramente il proporre una sensibilità diversa dal sentire comune e indirizzata apparentemente solo a un gruppo preciso di persone,ovvero a coloro che in qualche modo si ritrovano anche in una minima parte in ciò che gli artisti esprimono attraverso le loro canzoni.

Il problema è che se gli artisti fingono e interpretano un ruolo, i giovani ne assorbono le parole in modo acritico e le considerano dogmi.

L’espressività è diretta,codificata in una finta libertà nei testi, in una grammatica semplificata e immediata che reca in prova esperienze  di tipo personale per permettere a chi ascolta di identificarsi in quei pensieri.

Argomenti quali il tema della droga adolescenziale, il disagio legato ai problemi economici o familiari  e  il tòpos  dell’abbandono genitoriale  che costringe l’artista ad affrontare la vita da soli e con il loro tipo di musica.

Ciò che più offende, e lo dico proprio nella giornata internazionale della donna, è l’epiteto costantemente dispregiativo legato al gentil sesso, il passaggio dalla sublimazione della donna angelo alla denigrazione della donna oggetto.

E questo, nel 2021, non è giustificabile da nessun codice.

Non per censura ma per buon senso, in una società in cui il femminicidio è all’ordine del giorno, sarebbe auspicabile vietare un linguaggio che ha tutte le caratteristiche dell’istigazione a delinquere.

Benedetta Paccamiccio

Marco Conte: dal Dolce Stil Novo alla Trap

Si chiama Marco Conte e viene da Cassano Magnago, Varese; è giovane ed è colto, me ne rendo conto dalla costruzione sintattica della frase, dall’utilizzo disinvolto del gerundio, dall’uso dei pronomi atoni impliciti.

Ne sono certa, è uno che:

sa di latino.

Promessi Sposi, A. Manzoni

Si tratta di un elemento importante e solo apparentemente in disarmonia con il suo modo di cantare:

Ebbene sì: ho studiato al liceo scientifico, mi sono laureato e adesso insegno letteratura e musica.

Marco Conte

Lo guardo attraverso Google Meet, e vedo un volto pulito, intelligente e coraggioso: nonostante l’insegnamento, mantiene due piercing ma talmente fini da risultare quasi impercettibili attraverso lo schermo.

Parliamo, ci conosciamo in quest’epoca di Covid attraverso i pochi pixel saldi del mio portatile: non è uno qualunque, il ragazzo.

Il suo incontro con la musica ha luogo sei anni fa quando si ritrova,un po’ per gioco, ad essere frontman della band pop punk The Fhackers :

Tempi belli, tempi di live e di pubblico: secoli fa.

Marco Conte

Si rende conto che ancora, nella sua vita, occorre mettersi in gioco: studia canto con Antonio Marino e Laura Ciriaco (The Voice 2017). Il palco lo rende vivo ma sperimenta anche la strada del songwriting non solo con Nyvinne (Sanremo Giovani 2018, Amici 2019) ma anche per vari artisti emergenti (Lisa Selmi, Giorgia Pastori, Adelia, Venere, Debora Ruggero).

Musa ispiratrice di Conte è la scuola in cui si trova a lavorare; cerca la chiave per accedere -lui giovane- ai giovani.

Il gap generazionale si sente, anche se lui, classe ’89, può essere considerato a pieno titolo un nativo digitale con un serio bagaglio analogico che gli ha fornito un saldo senso critico.

Le sue canzoni sono dense, forti. Si ascolti Sto:

Sto su uno squalo e mi bevo una Red Bull

Marco Conte

L’impatto è psichedelico, la musica attinge dai bit e dai sintetizzatori tipici del trap ma il testo?

Si percepisce un di più, uno strappo al codice della trap music: citando l’allucinazione, Marco Conte condanna i trapper che esaltano la droga, la violenza. Quale significato nasconde questa scelta?

Scrivo per i miei studenti, canto per i miei studenti. Sono abituati a questo codice; bene, utilizziamolo per comunicare altro.

Marco Conte

So cosa intende dire: anche io uso la scrittura per comunicare e In un posto sbagliato nasce dalle macerie della periferia ma non arriva perché quei ragazzi non leggono.

Per questo il nostro sceglie di distribuire musica gratuitamente: conta il messaggio, non il guadagno.

Non si può però ridurre conte al ruolo di trapper, la sua musica è sperimentazione.

In Frangia viene narrato l’amore, un amore disperato:

Non me ne fotte se

tu

hai

i miei baci ancora

sulla frangia,

le tue botte

spaccano le labbra

Frangia, Marco Conte

E io mi immagino un giovane Guido Cavalcanti che grida e scrive in un disperato Stil Novo.

Esna: il coraggio della fuga

Esna ha gli occhi duri, lucidi, in fuga: a tratti si fermano sulla zuccheriera di porcellana, a tratti scorrono sulle mani rugose dell’anziana che lei, immigrata, accudisce.

Curioso, sarei voluta diventare dottoressa; nei giochi-da piccola- interpretavo sempre il medico: un medico donna in un Paese che ammette solo mamme.

Esna

Giovane, con due figli a carico in una terra straniera, lei nel suo Paese non è potuta restare:

Non dormivo più; dal momento in cui ho chiesto il divorzio mi sono arrivate continue minacce di morte. Alla fine speravo che lui facesse in fretta o immaginavo di suicidarmi: quella non era vita.

Esna

Sposa-bambina a causa dell’illusione dell’amore, Esna ha immediatamente capito di essere in trappola ma tace per il bene del figlio.

Dopo il matrimonio ho capito tante cose: lui era geloso, violento e incapace di lavorare.

Esna

Esna rimane nuovamente incinta, questa volta di una femmina, e si sente sempre più prigioniera. Il marito decide di emigrare: nella loro terra non c’è lavoro. Grazie ad un cugino di lui, la famiglia approda in Olanda:

Ero contenta: si trattava del nostro primo viaggio; Amsterdam era bellissima e le case avevano finestre enormi. La lingua era nuova, difficile, ma le sfide non mi hanno mai spaventata.

Esna

Purtroppo il marito si avvicina al mondo della droga e diviene ancor più violento.

Io lavoravo poche ore in un’impresa di pulizie e lui pretendeva il controllo totale sul denaro; cominciai a nascondere i soldi, a prendere sberle ma ancora non avevo il coraggio di fuggire. Lui mi chiamava puttana davanti ai bambini ma io non sapevo a chi chiedere aiuto.

Esna

Dopo un anno Esna è costretta a tornare nel suo Paese; la neve le pare intollerabile, faticosa, nemica. Non vuole stare lì, non con lui. Ha il coraggio di divorziare, i giudici parlano la sua lingua e forse ascoltano le sue ragioni. Trova lavoro in una fabbrica e coltiva amicizie femminili, ogni volta che lui esige vedere i bambini, lei accetta di seguirlo.

Non mi fidavo, avevo paura che li volesse ammazzare.

Esna

Una sera la discussione diventa più violenta e alcuni passanti chiamano la polizia che la salva ma non arresta lui.

Arriva in fabbrica pesta, esausta, segnata.

“Io ho uno zio che, se non lo guardi in faccia, ti porta in Italia”.

Non ha tutto il denaro richiesto ma suo padre la aiuta: si sente in colpa per il matrimonio al quale l’ ha destinata anche se lei non l’ha mai accusato.

Il viaggio è silenzioso, freddo. I bimbi stanno bravi.

Esna

Nessuno li ferma e viene lasciata a Padova; sua sorella è a Genova e la vuole raggiungere

ma non ho il passaporto dei bambini: il padre non lo avrebbe firmato.

Esna

Arriva a Genova in treno, senza biglietto e terrorizzata.

La fermano, la portano in questura, l’ascoltano.

Non raggiungo mia sorella, mi mandano in una comunità e ci sono altre mamme coi bambini: finalmente mi sento protetta.

Esna

Rosa Johanna Pintus

Il rito italico del capro espiatorio in questa tecnocrate perestroijka

Fin dalle prime battute, il Governo della tecnocrate perestrojka mi spaventa. Gli osanna per Draghi non sono ancora cessati ma Zingaretti si è già dimesso.

 In un lungo e accorato post su Facebook dichiara che: 

“Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni”.

Nicola Zingaretti

Questo avviene pochi giorni dopo l’altra celebre epurazione: quella di Domenico Arcuri.

Un Bersani pacato ma sempre più simile all’Apollo del Belvedere per la rabbia razionale trattenuta e contenuta, calibrata e diretta in uno sguardo acceso, risponde a Formigli:

“Vuoi mandare via Arcuri (e quel vuoi è riferito a Draghi)? Lo devi motivare”.

Pier Luigi Bersani

E ancora:

“La Destra dice che Arcuri ha fallito? Bisogna discuterne. Il giorno in cui Arcuri se ne è andato, con le vaccinazioni eravamo al pari con Francia e Germania. Ma non mi piace il rito italico del capro espiatorio.”

Pier Luigi Bersani

Meglio un generale, dunque? Una figura simbolica e tragica: colui che organizzò il trasporto dei feretri a Bergamo.

Forse perché questo virus è l’arma che doveva abbattere il Governo e imporre al Paese una democrazia, per dirla con Zagrelbelsky, calata dall’alto.

Ormai lo abbiamo capito tutti: il vero vincitore di questo capolavoro politico, che oltrepassa ogni logica e oscura ogni intenzione del compromesso giolittiano, non è Draghi, è Renzi.

Grazie alla sua efficace ed efficiente opera di servo dei poteri forti, il Senato e il Parlamento sono una geniale Versailles in cui i ministri si divertono in qualche battuta di caccia (all’uomo) e si pavoneggiano dinanzi agli ormai pochi media loro concessi ma, di fatto, nulla contano.

Mattarella ha un bel dire che ha fatto il pane con la farina che aveva, quale farina?

Quella di tipo 00, priva di fibra, grassi al posto di teste. E, dispiace constatarlo, il garante della Costituzione, si è comportato come Ponzio Pilato: “Gesù o Barabba?” Neppure lo ha chiesto direttamente, ha mandato il povero Fico in esplorazione a fare le consultazioni.

Senza nulla togliere a Draghi, il popolo amava Conte e Conte stava prendendo troppo potere: come Cesare, che è stato fatto fuori.

Mi terrorizza Sallusti quando, serafico, sostiene che gli Italiani non sanno decidere:

“Le democrazie elette dal popolo si sono dimostrate incompetenti”.

Alessandro Sallusti

E allora? Chi decide chi è competente e chi no? La linea tra aristocrazia e oligarchia è troppo sottile e rischia di essere valicata.

Sono stata in Erasmus la scorsa estate, ho parlato con Polacchi affranti dal sovranismo, Ungheresi delusi da un Governo reazionario, Spagnoli e Tedeschi. Giuseppe Conte piaceva all’Europa ma dava fastidio a qualcuno in Italia, forse anche a qualcuno all’interno dello stesso Movimento Cinque Stelle: gli infami si nascondono ovunque.

Ho sognato Berlusconi, mi ha detto: “Questa volta tocca a voi.”

Rosa Johanna Pintus

Esselunga in città: cosa fatta capo ha

Articolo di Sergio Famulari
A seguito del consiglio comunale svoltosi , è stato dato il via libera al secondo progetto Esselunga, dopo quella di via  Piave, in città, a Genova.
Pesanti gli scontri tra maggioranza ed opposizione sulla opportunità o meno di questa nuova apertura che, a detta del presidente del Civ di Sampierdarena, rappresenterà:

“ Un ulteriore grave schiaffo alla sopravvivenza di molte attività commerciali, non solo di Sampierdarena, ma anche delle alture e del ponente”.

Con toni analoghi si è espresso anche il presidente di Confesercenti che ha parlato di chiaro e sicuro “decadimento della qualità della vita”, oltre che di promesse disattese dall’attuale Giunta che si era spesa politicamente proprio sulla protezione delle attività piccole ed a conduzione familiare.

L’ingresso nelle passate amministrazioni di Coop e in queste attuali di Esselunga, possono essere considerate un unicum politico, nuove risorse e nuova imprenditoria, è evidente, sono sempre ben accetti;  ma il quesito è quali sono i prezzi che si pagano, e chi li paga?

Personalmente negli anni ho notato che questi forti gruppi della grande distribuzione si sono fatti carico di garantire la continuità e l’attuazione di momenti culturali e ricreativi che altrimenti rischiavano di andare perduti, quindi un punto a favore,  e poi?

Dal punto di vista urbanistico quali sono le reali virtuose ricadute pratiche a favore del quartiere o dei quartieri che più di tutti verranno impattati dall’arrivo di quest’ultimo grande colosso ( 3200 mq)?

In quanti dovranno letteralmente “ chiudere bottega”?

Interroghiamoci, speranzosi che la ragionevolezza e l’equilibrio prevalgano.

Sergio Famulari 

Giovàri: una voce che accarezza

Torino- Timido e scontroso ma deciso; si rivela a dosi, una delle interviste più difficili perché Giovari, Giovàri per la precisione, non è uno che parla o che scherza, è uno che scrive e musica versi, anche i miei, ed è così che i nostri destini si incrociano: in un film e come in un film.

Già, perché ci troviamo impegnati sullo stesso set, a lavorare come ossessi su un soggetto del regista Marco Bracco: lui con la musica e io con le parole. Lunghi incontri su Google meet all’ombra del Covid: città diverse, empatia impossibile attraverso uno schermo e tempi risicati per conoscerci.

Sulla musica, per esempio, abbiamo idee radicalmente diverse: io che amo rap e trap, lui che risponde con tracce melodiche perché, pur essendo giovane, non si riconosce nella musica gridata dalla maggior parte dei suoi colleghi e preferisce il fingerpicking, una tecnica che vuole le dita direttamente sulle corde della chitarra, senza il plettro:

La musica giovane non si riduce al rap, al trap, alla rabbia gridata in 4/4. Musica che proviene dal cemento ma che spesso non riesce ad andare oltre: i 4/4 possono accarezzare ed esprimere la protesta senza grida.

Giovari

Poi avviene il miracolo: Giovanni Arichetta musica e canta i versi che io ho scritto e quei versi diventano altro: “Ah! Ecco”, penso, “così arrivano a tutti.” E forse il rapporto tra un paroliere e un musicista è una sorta di danza latina in cui conduce chi possiede la chitarra.

Al di là del film, che racconteremo un’altra volta e al di là di me, Giovàri ha da poco terminato il singolo Senza Barriere: un brano melodico, già presente su Spotify.

L’intervista, come dicevo, procede a fatica: per deformazione professionale (sono una docente amante della maieutica) so che Giovari è più di ciò che racconta, che per capirlo occorre prima fare un viaggio dentro di lui e poi tradurre in linguaggio verbale ciò che lui è, e non so neppure se ne ho colto lo spirito. Decido allora di ascoltare le sue canzoni, di spiare il suo profilo Instagram, e lì sorride perché suona: non solo la chitarra ma anche il pianoforte.

La sua musica è fisica, sensuale e le sue canzoni rivelano l’immagine di un maschio sano, in grado di cavalcare la passione erotica con occhi d’amore, di piangere forse ma mai di insultare o uccidere la donna: un buon punto di partenza se si pensa che siamo passati dall'”Ehi, bambola” all'”Ehi, bitch”, che manco vuol dire puttana ma proprio cagna! Non dimentichiamocelo l’ospite di Sanremo osannato da Amadeus e non stupiamoci se l’Italia uccide le donne.

Gli chiedo quando si sia accorto della sua passione per la musica:

Dopo una delusione amorosa, chiuso in cameretta con la mia chitarra, ho scritto la mia prima canzone, più come uno sfogo, una sorta di liberazione, in realtà non per farne proprio una canzone. Ho però così trovato il modo per stare meglio e ho continuato a farlo perché ogni volta che ne sentivo la necessità i pensieri divenivano parole e poi strofe accompagnate e aiutate dalla musica di sottofondo.

Si tratta di una rivelazione sulla via di Damasco perché Giovari era combattuto da un’altra passione: quella per il calcio.

In poco tempo, incoraggiato dai suoi familiari, Giovari ha capito che ciò che scriveva e musicava era anche orecchiabile.

Così ho cominciato a studiare canto, a continuare gli studi di chitarra che già da anni avevo intrapreso. La necessità di sfogarsi ha fatto venir fuori tutto ciò. Una grandissima passione per la musica che pian pian sta diventando una professione.

Una gestualità forte e marcata è presente anche in questo artista poiché il bisogno di comunicare e di essere compresi è la linfa che nutre i performer; tuttavia in Giovari il gesto non riduce la musica a mera ancella e la voce diviene canto.

La rabbia si può esprimere a carezze, non necessariamente a pugni o attraverso kick ripetitivi, dissing e sintetizzatori. Ci vuole rispetto anche nella rabbia però…siamo nel 2020 dove la ricerca di un mondo senza barriere è all’ordine del giorno.

La musica, anche se non più da protagonista, tiene sempre il passo coi tempi ma spesso questo è un compromesso inaccettabile ed è meglio rallentare, riflettere, ponderare:

Ma non riesco a stare a tempo,

questo cuore è troppo lento.

Ghiaccio, Giovari

Gli chiedo in che senso la musica non sia più protagonista e perché la veda piuttosto come un accessorio.

In quest’era di consumismo si producono quintali di musica usa e getta e troppo spesso non contano le note ma l’outfit su cui poi l’artista guadagna. Se pur vi è qualcosa di buono, qualche verso geniale nei testi, questo viene spremuto fino alla fine e svuotato. Il ciclo vitale di queste canzoni è breve, diventano vecchie in un attimo, obsolete.

In effetti, i pezzi che hanno preceduto il XXI secolo sono tutt’ora hit:

Eravamo abituati ad ascoltare un pezzo anche per anni, ora basta un’estate per dimenticarlo. Non è però questa la natura dell’arte: nasce per rimanere, altrimenti non è arte.

Giovàri ha ragione: è arte ciò che rimane anche se è molto difficile essere stabili in una società liquida.

Rosa Johanna Pintus

Il fantastico golpe del ’21: ecce homo Fati

Lo sguardo freddo e il silenzio, la mancanza di empatia e un saluto “di dovere” perché proprio non lo si poteva evitare. Un’immagine brutta, quella del neopresidente acclamato che mette a tacere la moglie, in malo modo. Un’immagine bella, quella di Giuseppe Conte che si stupisce per l’applauso ricevuto ma condivide la sua commozione con la moglie.

Infine lui, colui che al solo nominarlo mi viene la tachicardia, lui che ha prima aiutato e poi tradito nella maniera peggiore: il rinascimentale, il Saudita, il rospo che si vuole gonfiare e diventare bue.

Che teatrino triste, squallido, tragico ci tocca osservare in questa Italia che dovrebbe festeggiare i settecento anni dalla morte del Sommo Poeta.

Questi due anni sono stati un incubo per tutti e Conte ci ha fatto persino arrabbiare per i suoi decreti ma era un uomo: di cuore, di carne.

Non so se lo avete notato, sono tornati quelli di prima e in pompa magna:

qual è la vision? A me sfugge. Non mi sfugge invece la mission: il potere deve essere maschio. Infatti tra i nove ministri senza portafoglio cinque sono donne.

Oggi ci troviamo con un Governo “che farà bene”: non si sa cosa farà ma già è intoccabile, algido, lontano.

Niente Social, niente sorrisi, probabilmente niente felpe né selfie. Tutto sterile, meglio che con la mascherina: pecunia non olet e il banchetto del magna magna è allestito per chi ci sta.

Mi sento fragile come un cristallo rotto, probabilmente è un problema mio quello di non riuscire a comprendere perché i governi italiani cadano a comando. Questo governicchio così raffazzonato ha tutta l’aria del golpe:

Renzi parla con Draghi e poi tace.

Renzi a un certo punto impazzisce e ritira le sue…ancelle.

Il Parlamento si finge scosso e il vomitevole reality si svolge mentre gli Italiani sono tenuti in pugno dalla pandemia.

Il Governo Conte cade ma non si possono indire elezioni perché c’è la pandemia.

Mattarella pone Draghi, mai eletto ma solo acclamato e invocato, come Presidente del Consiglio e lo Spread diminuisce.

Ecce homo, ecce golpe.

Rosa Johanna Pintus

Covid V Scuola tre a zero, perché?

Covid contro Scuola e vince il Covid 19 per tre a zero. Una sconfitta bruciante per i giocatori della Scuola, capitanata dalla Ministra che, in ogni modo, ha cercato di tener duro. Ma la squadra non ha retto agli attacchi degli avversari esterni ed interni: in primis una marea di giocatori indegni che ha implorato fino all’ultimo di chiudere le scuole con toni simili all’ammutinamento del Bounty.

La Ministra, a dire il vero, ci ha messo del suo, offrendo assist decisivi agli autogoal perché incompresa nelle sue performances migliori (una perla in mano ai porci!).

La squadra del Covid guardava incredula ciò che capitava nel campo avversario: l’incapacità del Governo di governare i propri governatori, ad esempio! Il Covid, essendo madrelingua cinese ma volenteroso nell’apprendimento dell’italiano, ha per un momento pensato che governo e governatori, avendo la medesima radice nel nome, fossero concordi; a questo si deve il suo tergiversare estivo, al timore di trovarsi di fronte una sorta di ordinata e coordinata testuggine romana, altrimenti ci avrebbe fatto tutti fuori prima.

Invece di coordinato non c’era proprio nulla: non gli ospedali, privi ancora di percorsi adeguati e di medici specializzati, non le Regioni, non lo Stato, non i Trasporti, non la Scuola.

La Ministra in realtà, con mente geniale e divergente, aveva intuito che uno dei maggiori problemi sarebbe stato quello dei trasporti e avrebbe ovviato al problema con i famosi e criticati banchi a rotelle, ultima ratio-nonostante le buche di Roma e dell’Italia intera- per consentire ai ragazzi un mezzo di trasporto a prova di furto (si sa che fine fanno in Italia monopattini e biciclette).

Ma ha pestato il piede sbagliato perché, mentre lei implorava il Commissario eletto di velocizzare l’acquisto dei suddetti banchi, il Governo intendeva calmare gli animi disillusi e il ventre affamato e scarno degli Italiani con il bonus biciclette, in netta concorrenza con la proposta del banco a rotelle.

Non credendo ai propri occhi per tanto facile bordello e osservando l’accesa sensualità dell’ala destra in campo, impegnata in selfie, formaggette e discoteche, il capitano del Covid 19, pur trovandosi in Sardegna, si è sentito sul Rubicone: “Alea iacta est” ha dichiarato ai prodi e facilmente ha assediato l’italica virtute che si pavoneggiava fiera e bella.

La Ministra, l’unica che, nel delirio di onnipotenza governativo-collettiva, aveva chiara la vision , ha gridato: “Non toccatemi la Scuola!” il Governo però, osservando la mission, e cioè la carenza di insegnanti che ha colpito persino il pargolo del Premier, ha smesso di riconoscerla come caposquadra.

Così, nel marasma totale, il virus si è diffuso e non per i droplet; tre sono stati gli alleati Covid e i traditor di patria: incompetenza, vanità e paura.

Paura non del Covid ma della cultura che avrebbe potuto rivelare in breve come l’incompetenza, in Italia, regni sovrana.

Ecco il senso profondo dell’epurazione dei nuovi sovversivi: le ballerine, gli attori, gli studenti, i prèsidi ispirati, gli insegnanti volenterosi, i nonni.

Ecco il senso profondo della chiusura delle scuole di danza, dei teatri, dei cinema, dei vecchi che sono narrazione di un passato democratico.

Ecco il senso profondo di una Dad forzata per gli adolescenti che hanno diritto all’istruzione, considerato che poi saranno loro a pagare i nostri debiti.

Apriamo le scuole e chiudiamo i parchi! Niente, nessuno mi sente.

E non posso che concludere con le parole del carme che più amo, il Bruto Minore di Leopardi, che esprime i miei pensieri meglio di quanto possa fare io:

In peggio
precipitano i tempi; e mal s’affida
a putridi nepoti
l’onor d’egregie menti e la suprema
de’ miseri vendetta. A me d’intorno
le penne il bruno augello avido roti;
prema la fèra, e il nembo
tratti l’ignota spoglia;
e l’aura il nome e la memoria accoglia
.