Follia di fede: Jacopone da Todi e la Pasqua sofferente di Maria

 

Che la fede sia follia mi è chiaro da tempo ma , da tempo, questa mi è necessaria.

Tra le figure che mi hanno formato, la mia attenzione va a Jacopone da Todi.

Il mistico allora mi viene incontro col suo sguardo cupo e sofferente in questa Pasqua del terzo millennio: io indosso la mia felpa bianca e le scarpe ormai dismesse da mio figlio che cresce, lui il saio.

 

Lo immagino vestito alla moda, affascinante e libertino fino al suo tragico Sessantotto (1268) quando vide la signora Vanna, moglie di Bernardino di Guidone, cadavere a causa del crollo di un pavimento.

Su quel corpo Jacopone trova il cilicio: perché Vanna si autoflagellava? Quali segreti nascondeva? E in che relazione era con Jacopone, celebre legale?

Jacopone non mi risponde, detesta i pettegolezzi ma ammette che da lì qualche cosa successe.

Così lo troviamo a mendicare, proprio come un barbone avido di spiritualità, e dopo dieci anni entra nei frati minori.

Gli domando perché, uno come lui, si trovò a ricevere una scomunica.

Non ama ricordare quel periodo in cui  Celestino V, come ricorda Dante, fece per viltade il gran rifiuto:

Fu un periodo terribile, noi pauperes riponevamo grandi speranze in Celestino V, egli tuttavia non era in grado di reggere l’ostilità di Bonifacio VIII. Quest’ultimo era una bestia avida di potere e priva di scrupoli, in men che non si dica organizzò una spedizione contro la Palestrina dei Colonna.

Resistemmo per un anno e mezzo ma poi fummo costretti a cedere: uomini di Dio contro uomini di Dio: la religione non c’entrava nulla.

Fui condannato al carcere perpetuo e alla scomunica, quest’ultima mi pesava più della prigionia stessa.

Fu Benedetto XI a revocare la mia scomunica, entro qualche anno sarei morto.

Umbro ma diversissimo da Francesco d’Assisi, Jacopone non crede a un rapporto semplice e sereno tra creature e creatore: la strada per la fede è sofferenza, dolore, desiderio di morte.

Arso tra sensazioni estreme e antitetiche, il nostro vive un’esperienza religiosa simile alla follia e non alla saggezza; e forse è proprio la follia religiosa che lo porta verso l’arte poetica più pura.

Ciò lo allontana però dagli ambienti culturali più importanti e, nonostante la solida base culturale, di lui emerge soprattutto il ribelle.

Quel ribelle che ci regala il più dolce e tragico ritratto di Maria davanti alla croce. Jacopone non s’illude, non vede una madonna azzurra e rarefatta anzi, per certi versi, anticipa la pietà di Michelangelo.

Cosa pensò la Madonna durante la passione e la morte di Cristo? Vi lascio dunque, senza parole, a leggere i versi di Jacopone che ci mostrano una madre impotente contro un destino che, forse, non era pronta ad affrontare.

Nunzio-  Donna del paradiso,
lo tuo figliolo è priso,
Jesu Cristo beato.
Accurre, donna, e vide
che la gente l’allide !
credo che ‘llo s’occide,
tanto l’on flagellato.

Madonna- Como esser porrìa
che non fece mai follia,
Cristo, la speme mia,
om’ l’avesse pigliato ?

Nunzio- Madonna, egli è traduto,
Juda sì l’ha venduto
trenta denar n’ha ‘vuto,
fatto n’ha gran mercato.

Madonna-Succurri, Magdalena,
gionta m’è adosso piena !
Cristo figlio se mena,
como m’è annunziato.

Nunzio-Succurri, Donna, aiuta !
ch’al tuo figlio se sputa
e la gente lo muta,
hanlo dato a Pilato.

Madonna- O Pilato, non fare
lo figlio mio tormentare,
ch’io te posso mostrare
como a torto è accusato.

Popolo- Crucifige, crucifige !
Omo che se fa rege,
secondo nostra lege,
contradice al senato.

Madonna-Priego che m’entendàti,
nel mio dolor pensàti;
forsa mò ve mutati
de quel ch’avete pensato.

Nunzio-Tragon fuor li ladroni
che sian suoi compagnoni.

Popolo- De spine se coroni !
ché rege s’è chiamato.

Madonna-O figlio, figlio, figlio !
figlio, amoroso giglio,
figlio, chi dà consiglio
al cor mio angustiato ?
Figlio, occhi giocondi,
figlio, co’ non respondi ?

figlio, perché t’ascondi
dal petto o’ se’ lattato ?

Nunzio-Madonna, ecco la cruce,
che la gente l’aduce,
ove la vera luce
dèi essere levato.

Madonna-O croce, que farai ?
el figlio mio torrai ?
e che ce aponerai
ché non ha en sé peccato ?

Nunzio-Succurri, piena de doglia,
ché ‘l tuo figliol se spoglia;
e la gente par che voglia
che sia en croce chiavato.

Madonna-Se glie tollete ‘l vestire,
lassàtelme vedire
come ‘l crudel ferire
tutto l’ha ‘nsanguinato.

Nunzio-Donna, la man gli è presa
e nella croce è stesa,
con un bollon gli è fesa,
tanto ci l’on ficcato !

L’altra mano se prende,
nella croce se stende,
e lo dolor s’accende,
che più è multiplicato.

Donna, li piè se prenno
e chiavèllanse al lenno,
onne iontura aprenno
tutto l’han desnodato.

Madonna-Ed io comencio el corrotto.
Figliolo, mio deporto,
figlio, chi me t’ha morto,
figlio mio delicato ?
Meglio averìen fatto
che ‘l cor m’avesser tratto,
che, nella croce tratto,
starce descilïato.

Cristo- Mamma, o’ sei venuta ?
mortal me dài feruta,
ché ‘l tuo pianger me stuta,
ché ‘l veggio sì afferrato.

Madonna-Figlio, che m’agio anvito,
figlio, patre e marito,
figlio, chi t’ha ferito ?
figlio, chi t’ha spogliato ?

Cristo-Mamma, perché te lagni ?
voglio che tu remagni,
che serve i miei compagni
ch’al mondo agio acquistato.

Madonna-Figlio, questo non dire,
voglio teco morire,
non me voglio partire,
fin che mò m’esce il fiato.
Ch’una agiam sepultura,
figlio de mamma scura,
trovarse en affrantura
mate e figlio affogato.

Cristo- Mamma col core affetto,
entro a le man te metto
de Joanne, mio eletto;
sia il tuo figlio appellato.

Cristo-Joanne, esta mia mate
tollela en caritate
aggine pietate
ca lo core ha forato.

Madonna-Figlio, l’alma t’è uscita,
figlio de la smarrita,
figlio de la sparita,
figlio attossicato !

Figlio bianco e vermiglio,
figlio senza simiglio
figlio a chi m’appiglio ?
figlio, pur m’hai lassato.

Jacopone da Todi – Rosa Johanna Pintus

Medea, donna che uccide. L’infanticida è straniera e la Destra insorge.

Una Medea legata che danza Stravinsky, così- nel mese della dedicato alla donna- si aprirà il laboratorio La magia di Medea proposto da LIBRIDA. Attraverso una piccola performance visionaria e immediata, la conduttrice pone l’accento su due concetti cardine: l’essere donna e l’essere straniera. Tema, questo, affrontato già in Fedra e la fragilità lo scorso 25 febbraio.

Nel caso di Medea però le tinte sono molto più forti e il colore lo sceglie Euripide che, nel 431 a.C., con questa donna così sofoclea, mise a disagio i giudici. Alessandra Giordano allora setaccia e reinterpreta il mito: eternamente sospesa tra la cultura classica e la realtà della periferia più estrema, si trova a  rappresentare una Medea in carcere,  poco importa se sia colpevole o innocente. Il mito del resto non è generoso e ricorda questa donna per atti atroci: le si imputa l’uccisione del fratello Apsirto, la si cita come assassina dei figli; impossibile allora non pensare a quella Jessica e a quella Annamaria che hanno dipinto di rosso le cronache di vent’anni fa: delitti ancora poco chiari come poco chiara è la storia di questo personaggio.

Medea aiuta Giasone  a prendere il vello d’oro, come la cugina Arianna aiuta Teseo a uccidere il Minotauro.

Entrambe tradiscono il padre, entrambe si offrono a stranieri che poi le ripudiano.

In particolare Medea, come la zia Circe, prima di essere ammaliatrice è vittima d’amore: Giasone si serve di Medea ma non la ama, le riserva le attenzioni che si danno a una πολλακη, non a una moglie.

La ragion di stato è padrona dell’eroe greco -colpevole di omicidio quanto lei- che, smaltiti i giovanil furori, deve mettere la testa a posto: il re di Corinto (il solito Creonte) offre a Giasone sua figlia Creuza e l’eroe non rifiuta l’offerta.

Medea - Le Mura di Sana'AMedea non lo può accettare, non si fa da parte come avviene nel caso di Ermengarda quando Carlo Magno la ripudia.

Non si fa da parte perché non è addomesticata, è viva:

Quando una DONNA viene offesa nel suo letto, non c’è altra mente che sia più sanguinaria.

Medea, Euripide

Questi versi sono interessanti in quanto inaccettabili per la morale, ma se Euripide  avesse scritto:

quando un UOMO viene offeso nel suo letto, non c’è altra mente che sia più sanguinaria

nessuno si sarebbe scandalizzato: né gli antichi Greci né noi, ormai assuefatti a infanticidi compiuti per vendetta.

Per un Giasone infanticida ci sarebbero stati due articoletti di cronaca nera (si pensi a Eracle), per Medea circa duemilaquattrocento anni di discussione: è innaturale che una donna uccida i figli, non è innaturale che li uccida un uomo.

Il punto però è un altro: se Medea non avesse ucciso i suoi figli?

Sostiene questa tesi la tedesca Christa Wolf che va a ficcare il naso nel mito pre-euripideo.

La Medea di Christa Wolf è vittima di un complotto: privata dei figli, è accusata di averli uccisi.

Medea, prima della tragedia di Euripide, incarnava il dramma di una donna STRANIERA che non poteva essere accettata dalla civiltà di Corinto; consapevole dell’odio che i Corinzi provano verso di lei, Medea si rifugia con i figli presso il tempio di Era.

Non basta: i Corinzi arrivano a lapidare i figli di Medea in luogo sacro e questi muoiono.

E’ curioso come la Wolf non sia l’unica a recuperare l’antico mito di Medea; prima di lei lo fa Corrado Alvaro, scrittore calabrese antifascista.

La Medea di Alvaro si circonda di Amazzoni ma non è un’ Amazzone, è una donna innamorata. Creonte appare finto, robotico e spiega con voce affilata e tagliente le ragioni del suo ripudio:

Il popolo mormora, la gente vuol star tranquilla! E più s’aprono le vie del mondo, più la gente si chiude.

Giasone metta almeno al riparo i miei figli.

No, non c’è asilo per i figli di Medea nel mio regno, il popolo mormora: la loro presenza è impura.

La lunga notte di Medea, C.Alvaro

Per i figli questo significa esilio, perdita di diritti, morte certa.

Il fatto che Corrado Alvaro scrivesse queste cose nel 1949 fa rabbrividire: l’autore immaginava che l’Italia si sarebbe nuovamente affidata a una destra xenofoba?

Non lo sappiamo, sappiamo solo che gli artisti anticipano, con le loro opere, il futuro.

Lo spazio concesso dalla saletta, che ora ospita una collettiva sulla donna, è piuttosto intimo; è gradita la prenotazione su info@librida.it

Rosa Johanna Pintus 

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Frammenti in fiore

Un romanzo particolare in cui compaiono più piani narrativi: l’adolescenza che sorge sui frammenti dell’infanzia, la prima esplorazione del proprio corpo vissuta come colpa negli ambienti borghesi e percepita invece come rituale di gruppo nel sottoproletariato genovese. E la cronaca: una donna accusata di narcotraffico, trascinata nel fango da un marito che odia ma che non può lasciare. Di capitolo in capitolo ci si avvicina a un inferno sempre più netto e che non lascia scampo, l’impressione è quella di un’autrice che conosce fin troppo bene ciò di cui parla, ciò che condanna.

Genoa Western Oresteia

GENOA WESTERN ORESTEIA

romanzo di Alessandra Giordano

recensione di Maria Giunta

Leggere “Genoa Western Oresteia” è come fare un salto nel ‘Quartiere’: viverlo, annusarlo, digerirlo.

Persone, non personaggi. Si respira aria vera, si vivono situazioni, sentimenti, orgogli spenti, desideri, speranze; perché non tutto è perduto.

Un libro vero, diretto, senza giri di parole. Una storia, tante storie che si intrecciano, che camminano insieme e si dividono. Storie di persone che fuggono dal ‘Quartiere’ per poi ritrovarsi più immerse di prima. Storie di persone che, con la speranza di una vita migliore, salgono al nord piene di sogni, che rimangono però imprigionati nelle valigie. Storie di giovani che lì nascono e muoiono; perché il ‘Quartiere’ è un mondo a parte, dove povertà e ignoranza rendono la vita di chiunque un inferno.

Chi decide delle nostre, delle loro vite? Chi decide?

Un libro da leggere.

Recensione di Elisabetta Berselli

In questo romanzo l’autrice descrive il quartiere Cep di Genova scavalcando quasi completamente ogni dimensione puramente descrittiva: l’orrore dell’architettura popolare, l’alienazione del vivere relegati in un ghetto contemporaneo ai margini estremi della periferia, sconosciuto alla “Genova bene” e guardato con sospetto dagli abitanti delle zone limitrofe, sfociano in una rappresentazione tutta interiore, fatta di stati d’animo, comportamenti e scelte costrette e conformate ad una realtà sociale di disagio e sradicamento dalle proprie origini. I personaggi parlano e raccontano se stessi a se stessi, nell’estremo tentativo di conferire significato ad un destino che, agli occhi di chiunque non appartenga al quartiere, non è degno di nota alcuna.

Recensione di Alessandra Versienti

Vita che si fa romanzo, romanzo che si fa vita: è questa la percezione, netta, che si ha scorrendo le pagine del romanzo di Alessandra Giordano. In’ambientazione di feroce bellezza e di degrado umano, di agio sociale e di solitudine morale si muovono i protagonisti, unici nei loro drammi, eppure così umani e vicini, sempre profondamente persone, individui toccati a volte in modo irreparabile dalla violenza e dal dolore.  Il romanzo è un affresco dai colori vividi di una Genova di periferia, battuta dai venti e ingentilita dal sole, una tranche de vie che racconta le creature che popolano quei luoghi e i loro sogni. Lo stile elegante, agile e lieve dell’autrice scivola sapiente sui volti, con tocco amorevole e delicato, e dona dignità di esistere ad ogni personaggio.

La rivoluzione dei gelsomini, una primavera politica

Mohamed Bouazizi

La primavera araba parte con Mohamed Bouazizi, un giovane venditore ambulante che, nel dicembre del 2010, si dà fuoco nella cittadina di Sidi Bouzid. Il suo gesto ricorda quello di Jan Palach che, nel 1969, si dette fuoco a Praga per protestare contro l’occupazione sovietica.

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Quel che resta del Sessantotto

L’8 Marzo di Librida

L’8 marzo, presso lo spazio Librida, si è svolto il recital “Ciò che resta del Sessantotto”.

L’evento, coordinato dall’attrice siciliana Mariapia Altamore, ha visto in scena quattro donne: l’attrice Donatella Rizoglio, la scrittrice Alessandra Giordano, la violinista Alice Nappi e Mariapia Altamore.

Particolare lo spazio in cui la performance ha avuto luogo: una saletta vicino a Porta Soprana, sede dell’associazione, che ospita una collettiva sulla figura della donna.

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