a cura di Sergio Famulari
Nino, a mio padre
Quante cose mi hai insegnato, chiedendomi di capire,
spesso senza spiegarmi.
Hai sempre avuto una parola sola,
e arrivavi lì dove non immaginavo,
portandomici.Tra misteri
appena accennati, coincidenze, tutele
e bevande ghiacciate,
mi asciugavi i capelli,
strofinandomeli dopo il mare,
che con te non faceva mai paura.
E il tuo titolo, “l’ingegnere”,
risuonava nelle strade e negli uffici,
senza mai ferire o ingombrare,
perché eri sempre con i deboli,
debole con i deboli
forte con i forti.
Quando ci siamo avvicinati,
dopo la mia fuga,
mi hai salvato
raccontandomi di nuove strade,
scienza e fantasia
che raccoglievi nel tuo sentire “ sensitivo”.
Poi ti sei ammalato,
in quei bianchi corridoi e bui
ospedali,
ostinato e controcorrente.
Io non ho saputo proteggerti,
come hai fatto tu con me,
eppure il tuo ultimo sguardo,
ignoto, suadente ed indecifrabile
lo hai regalato a me.
Rassicurandomi.
Dolce papà,
ci siamo tenuti la mano,
e mi hai trasmesso tutto,
ma io ti devo dire ancora una cosa,
so che mi ascolti ancora.
Preparo io il caffè…….
Sergio Famulari
Infiniti sono stati gli autori e le autrici che hanno sentito il desiderio di dialogare con il padre, fosse o meno scomparso e questo desiderio si è fatto anche mio.
Troppo importante è per tutti noi la figura del padre ( e della madre), costante punto di riferimento, anche se solo in contrapposizione, nella nostra vita.
Immense, delicatissime ed ispirate sono le liriche che qui proponiamo, con scelta puramente soggettiva e giocoforza, quindi, incompleta ma doverosa considerando l’anno passato, i padri perduti, la normalità che ancora non giunge.
Ora che siamo prossimi al 19 marzo, festa del papà, le riflessioni da parte di scrive sono due : la prima è quella di amare il padre e tutti coloro che sono stati padri o punti di riferimento nella nostra vita; la seconda è questa, anche in considerazione della figura di San Giuseppe: di padre onnipotente ne abbiamo solo uno, per chi crede, tutti noi altri ci muoviamo a tentoni ma, se spinti dalla potenza dell’accettazione dei nostri limiti, saremo buoni padri (e buone madri).
Ed ora lascio la parola ai versi partendo da Stevenson, più noto certamente per i romanzi, che in questa poesia sembra voler giustificare al padre la scelta della scrittura.
Robert Louis Stevenson
Non dire di me che ho rinunciato
alle imprese dei padri e che ho fuggito il mare,
le torri che abbiamo edificato
e le lampade che abbiamo acceso
per chiudermi nella mia stanza
e giocare con la carta come un bambino.
Dì’ invece: nel pomeriggio del tempo
un figlio vigoroso ha spolverato le mani
dalla sabbia di granito, e guardando lontano
lungo la costa mugghiante le sue piramidi
e gli alti monumenti catturare il sole che muore,
sorriso gonfio di gioia, e a questo compito infantile
ha dedicato, davanti al fuoco, le ore della sera.
Robert Louis Stevenson
Eugenio Montale, poeta del nostro territorio, scrive addirittura un poemetto: Voce giunta con le folaghe. L’ambientazione è quella del cimitero di Monterosso che diviene un limes tra le due dimensioni dell’uomo: quella terrena e quella ultraterrena.
Eugenio Montale
Poiché la via percorsa, se mi volgo, è più lunga
del sentiero
da capre che mi porta
dove ci scioglieremo come cera,
ed i giunchi fioriti non leniscono il cuore
ma le vermene, il sangue dei cimiteri,
eccoti fuor dal buioche ti teneva, padre, erto ai barbagli,
senza scialle e berretto, al sordo fremito
che annunciava nell’alba
chiatte di minatori dal gran carico
semisommerse, nere sull’onde alte.
L’ombra che mi accompagna
alla tua tomba, vigile,e posa sopra un’erma ed ha uno scarto
altero della fronte che le schiaragli occhi ardenti e i duri sopraccigli
da un suo biocco infantile,
l’ombra non ha più peso della tua
da tanto seppellita, i primi raggi
del giorno la trafiggono, farfallevivaci l’attraversano, la sfiora
la sensitiva e non si rattrappisce.L’ombra fidata e il muto che risorge,
quella che scorporò l’interno fuoco
e colui che lunghi anni d’oltretempo
(anni per me pesante) disincarnano,si scambiano parole che intenerito
sul margine io non odo: l’una forse
ritroverà la forma in cui bruciava
amor di Chi la mosse e non di sé,ma l’altro sbigottisce e teme che
la larva di memoria in cui si scaldaai suoi figli si spenga al nuovo balzo.
Eugenio Montale
Il dolore del ricordo percorre questi versi che sfociano addirittura in voci pascoliane:
– Ho pensato per te, ho ricordato
per tutti. Ancora questa rupe
ti tenta? Sì. la bàttima è la stessa
di sempre, il mare che ti univa ai miei
lidi da prima che io avessi l’ali,
non si dissolve. Io le rammento quelle
mie prode e pur son giunta con le fòlaghea distaccarti dalle tue. Memoria
non è peccato fin che giova. Dopo
è letargo di talpe, abiezione
Eugenio Montale
che funghisce su sè… –
La memoria è una voce che sembra andare e venire come le onde del mare e, se non fosse per la descrizione di un paesaggio così visibilmente ligure, l’atmosfera sembra quella disperata di Cime Tempestose. E ancora:
Il vento del giorno
confonde l’ombra viva e l’altra ancora
riluttante in un mezzo che respinge
le mie mani, e il respiro mi si rompe
nel punto dilatato, nella fossa
che circonda lo scatto del ricordo.
Così si svela prima di legarsi
a immagini, a parole, oscuro sensoreminiscente, il vuoto inabitato
che occupammo e che attende fin ch’è tempo
di colmarsi di noi, di ritrovarci…
Eugenio Montale
Anche un altro premio Nobel, Pablo Neruda, dedica una poesia al padre. A differenza di Stevenson, Neruda è uomo d’azione: perseguitato e probabilmente ucciso da un sicario di Pinochet, il poeta qui dialoga col padre “da uomo a uomo”.
Pablo Neruda
Terra dalla superficie incolta e arida
terra senza corsi d’acqua né strade
la mia vita sotto il sole trema e si allunga.
Padre, i tuoi dolci occhi non possono nulla
come nulla poterono le stelle
che mi bruciano gli occhi e le tempie.
Il mal d’amore mi tolse la vista
e nella fonte dolce del mio sogno
una fonte tremante si rifletté.
Poi… chiedi a Dio perché mi dettero
ciò che mi dettero e perché poi
incontrai una solitudine di terra e di cielo.
Guarda, la mia giovinezza fu un candido germoglio
che non si aprì e perde
la sua dolcezza di sangue e vitalità.
Il sole che tramonta e tramonta in eterno
si stancò di baciarla… È l’autunno.
Padre, i tuoi dolci occhi non possono nulla.
Ascolterò nella notte le tue parole:
Pablo Neruda
…figlio, figlio mio …
E nella notte immensa
resterò con le mie e con le tue piaghe.
Maria Luisa Spanziani coglie la luminosità e la dolce forza del padre ritraendolo in un ricordo importante.
Maria Luisa Spaziani
Papà, radice e luce,
Maria Luisa Spanziani
portami ancora per mano
nell’ottobre dorato
del primo giorno di scuola.
Le rondini partivano,
strillavano:
fra cinquant’anni
ci ricorderai.
Il padre descritto da Salvatore Quasimodo è un padre che ruba, prendendola su di sé, la sofferenza.
Salvatore Quasimodo
Dove sull’acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato.
Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.
La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.
Il tuo berretto di sole andava su e giù
Salvatore Quasimodo
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
“Baciamu li mani”. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.
Camillo Sbarbaro coglie il padre nell’atto di sgridare la sorellina, un atto necessario ma contrario alla sua natura.
A mio padre
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
che la prima viola sull’opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l’appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.
E di quell’altra volta mi ricordo
che la sorella mia piccola ancora
per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia avea fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l’attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l’avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo ch’era il tu di prima.
Padre, se anche tu non fossi il mio
Camillo Sbarbaro
padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t’amerei.
In Alda Merini infine il padre viene descritto attraverso un oggetto transizionale, il cappotto.
Il pastrano
Un certo pastrano abitò lungo tempo in casa
Alda Merini
era un pastrano di lana buona
un pettinato leggero
un pastrano di molte fatture
vissuto e rivoltato mille volte
era il disegno del nostro babbo
la sua sagoma ora assorta ed ora felice.
Appeso a un cappio o al portabiti
assumeva un’aria sconfitta:
traverso quell’antico pastrano
ho conosciuto i segreti di mio padre
vivendoli così, nell’ombra.
Buon San Giuseppe a tutti!
Sergio Famulari