Il ponte è, da sempre, emblema di lotta tra l’uomo e la natura: l’intelligenza sfida col calcolo, con la magia dei numeri, la Creazione.
In questo senso il Ponte Morandi è pura hybris, tracotanza a scadenza, come Cenerentola al ballo.
In effetti non sono molto lucida nello scrivere questo articolo, so di essere salva per venti minuti e una manciata di monete che non riuscivo a contare; ma perché io sia salva non lo so.
Me lo sono chiesta più volte, provando vergogna e rimorso nei confronti di chi è precipitato, dicono si chiami “sindrome del ponte”.
Mi colpisce la fantasiosa capacità dei terapeuti nel dare nomi convincenti a qualsiasi stato di malessere, come se dare un nome significhi eliminare il malessere: non è così.
Il crollo del Ponte Morandi ha gettato i Genovesi in una profonda dimensione d’angoscia: per le strade c’è silenzio, c’è la piena consapevolezza di essere dei sopravvissuti, c’è la paura di un nuovo crollo perché il ponte è meno stabile di prima e mentre scrivo c’è vento, c’è chi ha perso tutto e chi è sfollato.
Vorremmo dunque che i motivi di quest’incuria fossero segnati su carta, che i colpevoli fossero puniti ma sappiamo che non sarà così perché in Italia i pesci grossi non pagano mai: incombono come figure senza volto alle spalle di uomini semplici che gridano.
Due anime, una città
Genova sta male, sta male da tempo, e con il crollo di quel ponte la Genova degli inferi e la Genova dei superi si sono dovute guardare in faccia: capitalismo e sottoproletariato non si possono più ignorare:
… si trovò tuttavia a pensare alla città, una città che si comportava da madre con gli uni e da matrigna con gli altri; una città lunga ove turchino e smeraldo si snodavano aristocratici e sereni sulla costa mentre, dalla collina, incombevano violenti come nembi autunnali, pronti a esplodere, i casermoni dei quartieri popolari.
E la borghesia cittadina, prima o poi, avrebbe dovuto fare i conti con questa realtà perché le tessere di un tessuto urbano si intersecano e traggono forza le une dalle altre se si appianano le differenze e non se si creano fortificazioni destinate a cadere.
Frammenti in fiore, A.Giordano
Certo, nessuno pensava in questo modo.
Osserva Repubblica che il Ponte Morandi, più di ogni altro luogo, segnava il limite tra due mondi: il mondo destinato a osservare i piloni dal basso e quello che usufruiva del ponte per muovere velocemente le merci.
Non è improbabile che questo bisogno economico di muovere merci e turisti abbia portato a rimandare la chiusura del viadotto che, come emerge dall’inchiesta de L’Espresso, era già oltremodo deteriorato.
Lo stato di degrado era evidente a chi abitava immediatamente sotto il ponte, costretto da una modesta situazione economica a convivere con l’incubo di un crollo.
Scrive Angelo Poggio in “Una strana vacanza“:
La finestra era quella quella di una stanza al quarto piano di un palazzone dal colore indefinito. Una costruzione datata anni Sessanta che contrastava, per alcune innovazioni quali il portone in vetro, con gli altri stabili del rione. Il panorama che offrivano le finestre era perfettamente adeguato alla tristezza delle case.
Angelo Poggio, che ha collaborato con alcune testate giornalistiche, proviene dalla Valpolcevera e il panorama che ha caratterizzato la sua giovinezza è legato al Ponte Morandi; l’autore è uno di quelli che ha fatto il salto ed è andato a vivere in quartieri meno rischiosi e in questi giorni è profondamente toccato da quanto accaduto.
Le vittime non appartengono neppure a questi due mondi, molte non erano neppure liguri.
Quella mattina
Quella mattina pioveva a dirotto, non si vedeva nulla. Mi trovavo vicino a Genova Est quando è crollato il ponte; da lì sarei passata sull’A7 e poi mi sarei immessa sull’A10. Una strada che percorro da quando sono nata perché la mia famiglia ha una casa a Velva, in Val Petronio. Il ponte era per me percorribile solo di ritorno dalla residenza estiva poiché, per recarmi a Levante, avevo preso l’abitudine di entrare in autostrada a Genova Ovest, causa il traffico estivo provocato da chi doveva prendere il traghetto.
Quella mattina pioveva a dirotto: un muro d’acqua e una serie di lampi anomali, quindi un rumore sullo sfondo molto simile a un tuono. Ancora oggi mi chiedo se fossero tuoni o se fosse l’energia del ponte in caduta.
Appresi per telefono che “era crollato il ponte della nonna”, lo definivamo così in famiglia perché mia madre, architetto, aveva paura di percorrerlo; sosteneva infatti già da tempo che ” non ci vuole una laurea in ingegneria per capire che questo ponte non può più reggere”.
Mi chiedo dunque perché, se la situazione era così chiara a una comune cittadina priva degli strumenti di monitoraggio, le autostrade abbiano finto di non vedere: hybris o incuria?
Si sa, in una catastrofe
la verità è la prima vittima.
Eschilo
Se un terremoto può essere accettato, la guerra e i suoi danni “collaterali” compresa, nel 2018 il crollo di un ponte risulta inaccettabile; si ha sete di verità, assoluto bisogno di verità perché ci si sente traditi da chi avrebbe dovuto proteggere almeno i bambini: da quel ponte si arriva alla piscina, agli impianti sportivi, alle case coloniche dell’ACR! Tutti i nostri figli sono transitati su quel ponte, solo qualcuno ci è morto.
Genova ora guarda quel vuoto, quell’abisso che campeggia ghignante sopra le nostre vite, che ti rapisce lo sguardo come solo l’orrore sa fare, a Genova non puoi non guardare la morte.
E la morte provoca follia ed euforia, selfie e pose evitabili.
Genova, la deturpata
Come si può definire Genova oggi? Le battute su FB sono fioccate nei giorni immediatamente successivi al disastro, c’è stato chi sorrideva al pensiero dei Genovesi tirchi che risparmiano sulla manutenzione: l’unica cosa da risparmiare sono le battute su una città già fin troppo ferita e difficile da capire,
Amara come il caffè che ti dà dipendenza: all’inizio storci il naso e ti chiedi come una bevanda dall’odore così avvolgente possa avere un gusto così forte, poi torni a berlo e diventa il tuo rito quotidiano.
Genoa Western Oresteia
Dice il Pessot:
Mi ero ripromesso il silenzio, oggi dopo una attenta riflessione
desidero esprimere il mio punto di vista.
L’ultima ribellione del popolo di Genova è stata nella notte dei tempi quando al grido ‘che l’inse e che la rompa’ Gianbattista Perasso scagliò il sasso contro gli Austriaci.
Genova, la grande Genova,la Superba, la mia stupenda Zena non esiste più. Andiamo a vedere l’evolversi della situazione.
– Il più grande porto del Mediterraneo è ridotto ad un porto per navi da crociera e per traghetti. Di questa situazione ha pure delle responsabilità la compagnia Unica tra i lavoratori del porto. La sola cosa positiva fatta è stato l’acquario.
– Genova capitale delle industrie di Stato (vedi Iri) sparite.
– Genova industria cantieristica, le poche commesse vengono dirottate a Monfalcone. Lo Stato invece di intervenire per potenziare la cantieristica genovese ha preferito entrare in compartecipazione con la cantieristica di Stato francese.
– Genova industriale: Ansaldo, San Giorgio con tutto il loro indotto sono ridotte al lumicino.
– Genova capitale marittima: con lo smembramento del capitale Costa sono sparite anche le grandi società di navigazione.Con la Costa sono sparite le società ad essa collegate come l’olearia Dante.
Genova antica e medioevale: con la distruzione di Portoria e della zona della Gran Madre di Dio è stato dato un colpo di grazie alla Genova medioevale, quando si poteva procedere ad opere di qualificazioneinserite in un centro storico di valore europeo. Non parliamo dei quartieri che le hanno sostituite!La classe politica, malgrado abbiamo sempre avuto deputati, senatori e ministri in tutte le legislature non hanno mai fatto granché per la città.
50 anni di amministrazione di sinistra hanno contribuito a portare questa città al degrado.
La mentalità chiusa e provinciale degli imprenditori nei lontani anni ’60 ha provocato la fuga di quadri e dirigenti verso altre città in particolare Milano dove i ‘genovesi’ si sono affermati in gradi società nel campo dell’industria, petrolifero,alimentare, chimico e della ristorazione. Un capitale umano regalato ad altri.
Potrei citare infiniti casi di miopia politica e industriale.
Oggi andiamo a cercare i responsabili della strage del viadotto Morandi.
I responsabili del disastro Genova siamo noi genovesi.
Dovevamo reagire, non emigrare,dovevamo impegnare le componenti politiche e industriali, dovevamo ribellarci alla distruzione della città.
Oggi forse è tardi, bisogna imporre alla politica che la città ritorni ai vecchi splendori, magari anche con un sasso come Gianbattista Perasso da scagliare nello stagno delle pastoiepolitiche e dell’apatia.
Il Pessot, ormai lo sapete, è solito usare un linguaggio privo di sconti e, in effetti, in questo momento non si può essere diplomatici; è un fatto incontestabile che, mentre Morandi costruiva il suo avveniristico ponte, una parte della città veniva distrutta:
L’’ingiustizia era evidente.
In effetti le classi sociali sono ben divise: a Levante i ricchi, a Ponente i meno abbienti. E infatti a Levante ci sono gli autobus con l’aria condizionata, i parchi curati, c’è il nuoto sincronizzato, la lotta greco-romana, la capoera, i locali che fanno tendenza e cultura; a Ponente i mezzi si limitano ad esistere: sporchi, luridi, dannati; qui si praticano il pugilato, il calcio, il parkour, i giardini sono spesso abbandonati a se stessi e vi sono parecchi capannoni abbandonati. Se ti dirigi a est della città più trovi appartamenti sul mare e villette fiorite su alture con vista mozzafiato; a Ovest, arrivandoci con l’autobus numero Uno (il Due, il Tre, il Quattro e il Cinque sono stati via via eliminati a causa della crisi economica) pieno di umanità variegata, s’incontrano delegazioni quali Sampierdarena e Cornigliano, un tempo aree industriali inquinanti ma che davano lavoro e ora abbandonate, trasformate in centri commerciali vuoti perché il denaro non circola più. Le bande sudamericane, composte da figli di badanti che stanno per pochi soldi tutto il giorno a seguire i vecchietti ma delegano alla strada la crescita della prole, dominano su Sampierdarena e Cornigliano; Sestri Ponente, zona commerciale e abitata prevalentemente da insegnanti e operai, è vivibile. Pegli si ritiene ancora una stazione climatica e marittima nonostante abbia il mare inquinato e il depuratore poco funzionante; Pra’ e Voltri invece vanno vissute per essere comprese: sono come quei rami resi robusti e nodosi dalle sferzate del vento.
In un posto sbagliato, R.J.Pintus
Il ponte univa in pochi minuti tutte queste anime diverse, creava un contatto difficile ma immediato, consentiva a noi, che stiamo al di qua del ponte, di vivere una realtà altra; il Ponte Morandi, che offendeva e offende la Valpolcevera, era amatissimo da noi che viviamo a Ponente: ci consentiva l’accesso ai musei, al cinema, al teatro, alla vita.
Un di più, direte voi, pagato col sangue di vittime innocenti a causa dell’incuria assassina del profitto.
Ora, più che mai, è necessario che Genova stia con Genova, che si riscopra umana ed accogliente, che rinunci al grido “prima gli Italiani” poiché basta un soffio di vento per rivelarci la nostra umana fragilità.
Rosa Johanna Pintus