“Io non sono nessuno” memorie dalla Val Petronio

“Io non sono nessuno”, la frase irrompe nel giardino di Mario mentre la pronipote gioca sotto gli alberi. “Davvero non ci potevo credere che quella ragazza non mi riconoscesse quando noi, umili contadini, avevamo accolto in paese lei e tutti gli sfollati di Sestri; e così , quando mi ha chiesto chi fossi e perché pensavo di poter lavorare lì, le ho detto: chi sono? Io non sono nessuno”. Le sue parole sono secche perché parlare di ingratitudine brucia la gola, asciuga il palato: “Volevo solo poter fare il cameriere e lei fingeva di non conoscermi…Ma vede, la guerra era finita e i ricchi tornavano ad essere ricchi, i contadini riprendevano a fare i contadini perché la vita è così: scorre, e chi si è visto si è visto.”

Gli chiedo perché non avesse ricordato a quella ragazza chi fosse, in guerra erano bambini e ora si ritrovavano adulti, forse davvero ella non riusciva ad associare il suo volto a quel periodo. “No, guardi…non quando vedi le bombe scendere su luoghi che conosci, non quando hai paura insieme.” Poi riprende fiato: “Certo, non avevo studiato; io sono originario di Zuccarella e sono figlio di mezzadri. Da bambino stavo con le pecore e i campi erano pieni di grano e di ulivi; ci giravo scalzo per quei campi, li tenevamo puliti e Velva aveva un altro aspetto. Anche durante la guerra, coi fascisti che avevano qui gli accampamenti, c’era da mangiare.”

“Com’erano i fascisti qui a Velva? “Tremendi ma umani”. “Come, scusi?” Sono stupita da quest’involontario ossimoro e mi chiedo che cosa Mario intenda dire.

“Le camicie nere erano delle vere e proprie bande e ci facevano paura. Io sono del Trentasette e mi sono vissuto la guerra da bambino. La guerra, quella vera, non era l’unica; i Sestresi erano sfollati per i bombardamenti ma sulle alture c’era la guerra civile, quella dei partigiani.

Così le camicie nere prendevano i contadini, gli facevano scavare la fossa e dicevano che ce li avrebbero buttati dentro. Che poi parliamo di contadini vecchi e di ragazzini: gli uomini erano arruolati. Alla fine, nonostante il terrore che provavamo ogni volta, soltanto poche persone sono state realmente gettate nella fossa, in genere lasciavano andare tutti.”

“Sì, però…”

“Anche i partigiani erano tremendi. Ci spaventavano ancora di più. I fascisti li vedevi, sapevi dov’erano. Dicevano che quella fossa era già lì nel caso avessimo deciso di aiutare i partigiani: il duce voleva dare la pensione ai contadini e i padroni non volevano, i partigiani preferivano i padroni.”

” Ma no, molti partigiani erano socialisti!” esclamo.

“Comunque sia, quelli di allora erano meglio di quelli di adesso.” conclude Mario.

Guardo lui ed Elia, sua moglie, e so che questo articolo mi prenderà del tempo, che non mi sarà chiaro né cosa scrivere né come scriverlo. Perché Mario ed Elia, quelli che stanno parlando con me adesso, sono gli stessi che conobbi bambina: immutati. Vederli nel ruolo di bisnonni attivi e giovanili mi fa un certo effetto. Elia poi mi riporta alla me bambina che andava a comprare in quel negozio che c’era a Velva e che non c’è più, non perché vi fosse la volontà di chiudere ma perché, tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo millennio, Velva è morta di abbandono.

Elia è più giovane di Mario: è nata l’anno della Costituzione: “Sono vecchia ma non così vecchia da potermi essere goduta il primo voto delle donne, mannaggia!” I capelli ancora neri e lunghi, il volto dalle rughe appena accennate.

Ed è sua moglie, perché poi Mario è riuscito a lavorare negli alberghi e ha incontrato la sua dolce metà: “L’ho conosciuta al Miramare che ero già un uomo: avevo lavorato in diversi alberghi e persino in distilleria perché, qui in zona, c’era la White Rock, la fabbrica di birra.”

Mario è un uomo affascinante e diretto, sicuramente concreto, ed Elia si innamora; la coppia sceglie di vivere a Velva ed Elia si apre quello che diventerà lo storico negozio di quest’angolo tra gli Appennini. I primi anni il negozio vende bene, è un emporio che risponde a tutte le esigenze; appena i figli crescono, decidono di aiutare la madre: “Io non amavo il negozio”, ammette Mario, “mi pareva un lavoro da donne.” Invece Ugo, il figlio, ama lavorare in questo negozietto: “Ugo partiva con la sua Vespa e andava a far consegne in ogni dove mentre mia Gabriella mi aiutava al banco”. Poi, triste, Elia aggiunge: “C’erano tre negozi qui, e vendevamo tutti.” Poi il dramma inarrestabile: “Nel ’99 Velva si è spopolata; non di colpo, certo, ma nel ’99 abbiamo capito che non potevamo più competere con i supermercati. Chiudere il negozio è stato come dare l’ultima pugnalata a Velva.”

Elia aggiunge che durante il lockdown si è resa conto di come sia cambiata la mentalità della gente: “I corrieri portavano i pacchi anche quassù ma senza avere alcuna relazione con i clienti, altro che Ugo!”

“Certo,” ammette Valeria, la nipote, “però, durante il lockdown, qui siamo riusciti a vivere e molte famiglie hanno riscoperto il piacere di relazionarsi in una comunità piccola ma lontana dalle ansie che pervadono il mondo.”

“Dunque” sorrido “se mai ci sarà un nuovo lockdown, verrò qui a esplorare i sentieri di Velva.”

Ed è agosto quando pronuncio questa frase: ero sicura che non ci sarebbero stati altri lockdown.

Curioso, questo articolo avrebbe dovuto essere pubblicato su PoliticaCultura nel mese di settembre ma, banalmente, non trovavo più le foto di quella mattina così particolare.

Oggi, mentre setacciavo la cartella d’immagini, all’alba di una nuova e inevitabile chiusura, è spuntato il volto di Mario al quale mando i miei più vivi saluti; un caso, un monito, non lo so ma, da un po’ di giorni, Velva sembra chiamarmi col suo silenzio, la sua bellezza, la sua speranza.

Rosa J.Pintus


La Liguria e l’Appennino

Silenzio, si respira silenzio oggi in alcuni paesini della Liguria, ma nessun silenzio è muto.

Guardiamo, cogliamo lembi di paesaggio dalle nostre finestre: spicchi di sole e di pietre che parlano, che si raccontano.

Ci chiediamo che  cosa fosse la Liguria in passato, prima della fitta schiera di palazzi che ora occupano le sue colline, prima dell’affollarsi di chioschi sulle spiagge o del mare rubato dal cemento per il dio acciaio, prima dei ponti che furono.

E osservando finalmente la nostra terra ci rendiamo conto di una frastornante verità: la campagna grida.

In effetti nel nostro paesaggio si impongono due linee maestre:il profilo costiero e il profilo montuoso:profili  intersecati, abbracciati, stretti, quelli che Nino Durante, scrittore praino, definisce “di verde e d’azzurro”.

E la linea dominante è quella appenninica, non quella costiera benché la costa sia la parte più conosciuta.

Non solo: l’entroterra, visto dall’alto, appare selvaggio, aspro, regredito, talvolta abbandonato.

La fascia costiera risulta solare e splendida alle estremità di Ponente e di Levante, grigia e fortemente urbanizzata nelle zone di Genova e Savona.

Ogni paesaggio, si dice in architettura, ha un proprio genius loci, intriso di storia e di natura, perché storia e natura si compenetrano e divengono una cosa unica.

E qual è il genius loci della Liguria? E’ la riviera mediterranea, quasi come se i potenti monti venissero calamitati dall’esile costa e proiettati sul mare.

Il genius loci della Liguria, pensate,  ha affascinato Vidal de la Blache (1845-1918), un geografo francese, fondatore della moderna geografia umana.

Modello mediterraneo è la zona ligure che la terminologia popolare ha distinto col caratteristico nome di riviera:

riviera di Ponente da Genova a Sanremo, riviera di Levante da Genova a La Spezia.

Ma la vera protagonista della Liguria non è la riviera, è la montagna; questa chiude la costa, la avvolge e sui versanti digradanti verso il mare si vede emergere tra piantagioni e boschi  d’ulivi il borgo principale, collegato alla spiaggia da sentieri a gradini scalati da asini.

Velva, anticamente Veleura, Liguria di Levante

Fernand Braudel, uno dei massimi storici del Novecento francese (1902-1985) ha colto proprio la natura imponente e arcigna della montagna mediterranea.

“Lo spessore della montagna ci presenta un mondo arroccato, irto di baluardi, con le sue rare case sparse e i suoi villaggi, i suoi nord verticali che contrasta col paesaggio urbanizzato che si estende lungo i margini costieri.”

Braudel dunque non percepisce l’abbraccio tra montagna e mare ma il contrasto dato da due elementi opposti, in equilibrio tensivo, costretti a convivere.

Volontari dell'”Associazione Veleura”, giovani compresi, coadiuvati dall’Associazione di Chiavari “Le pietre parlanti”, in azione su sentieri dimenticati

Naturalista francese, anche De Saussure (1740-1799) vive l’estremo contrasto tra la straordinaria bellezza della fascia costiera orlata da una successione di campagne e sedi umane armoniche che formano un’unica città mentre la montagna, senza ordine, e direzione si presenta talvolta con aspetto orrido e triste.

In realtà, nonostante la diffidenza del De Saussure, l’Appennino Ligure brulica di storia, una storia che rende evidente il contrasto tra uomo e natura, impossibilitati a vivere in armonia.

Le nostre montagne sono state abbandonate dai giovani già nel 1930: la città offriva salario fisso e orari di lavoro apparentemente meno massacranti del continuo terrazzamento dei terreni, della zappa,delle braccia stanche e della pelle arsa dal freddo e dal sole.

Fausto Figone, storico di Castiglione Chiavarese, sottolinea in E’ tempo di migrare come la crisi della civiltà contadina in Val Petronio porti a una migrazione ben più definitiva di quella verso le Americhe: l’abbandono delle campagne liguri pare irreversibile e i sentieri costruiti dagli uomini di un tempo sono stati invasi dai rovi.

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Fausto Figone, scrittore in jeans

Con il recente lockdown qualcosa è cambiato: le persone, in particolare le famiglie, si sono rese conto del ruolo vitale e importante dei paesini liguri.

E’ il caso di Cristina Torrisi, attualmente presidente della ri-nata Associazione Veleura. Rinata, perché non è mai morta l’Associazione, curata dall’instancabile Giorgio Raggio che ha dato supporto e aiuto per l’organizzazione di festival letterari quali In Velva Litterae.

 

Cristina, la donna in cui quasi per caso cade il punto di fuga di questa foto, è rimasta bloccata a Velva con marito e figli quando il presidente Conte ha annunciato il lockdown.

“Mio Dio, ho pensato, come faccio?” A Velva non c’è neppure un emporio, l’ultimo ha chiuso alla fine degli anni Ottanta e Cristina ha poco cibo, pochi indumenti per i figli.

“Io che non so cucire mi sono trovata a rammendare, stringere, allargare persino la biancheria intima dei miei figli; Amazon non ci avrebbe portato nulla prima di un mese, era una situazione del tutto eccezionale; eppure ho scoperto che qui, il Mercoledì, arriva il camion della spesa e pian piano, ma con entusiasmo crescente, ci siamo resi conto di come qui si stesse decisamente meglio. Io venivo qui in vacanza da bambina, mio marito è originario di questo comune…abbiamo fatto il passo e abbiamo preso la residenza qui.”

Adesso Cristina sta coordinando con determinazione la cura del territorio, il ripristino dei sentieri, ed è la voce più decisa nella piccola agorà del paese.

“Abbiamo intenzione di creare percorsi bike e riprendere i festival letterari ma la prima esigenza è salvare il patrimonio di un territorio così ricco, complesso e abbandonato. I vecchi ci stanno lasciando, tocca a noi adesso e il nostro intervento è determinante per il rilancio del paese: non abbiamo più tempo.”

Un paese abbandonato che sembra voler rinascere, lo dimostra l’apertura della Locanda Veleura.

Dopo aver lavorato per parecchi anni in Ruanda, un uomo decide di…

Ma questa è un’ altra storia e ve la racconterò dopo una buona colazione in locanda!

Rosa Johanna Pintus