Sono giorni molto difficili, questi, per la Scuola; un’estate troppo breve per contenere tutte le emozioni, le istanze, le delusioni. Mi volto indietro e riguardo l’anno scolastico, trascorso a studiare, a sperare, a piangere, a rialzarsi e a togliere, inevitabilmente, tempo agli affetti.
Un anno intenso, sicuramente formativo ma che, fino a poche ore fa, pensavo mi avesse lasciato in mano soltanto un pugno di sabbia e un leggero calo scolastico dei miei figli che ho seguito di meno nello studio (rendendoli finalmente autonomi).
Un pugno di sabbia che scivola tra le dita perché non ho vinto ma sono viva e sto recuperando il tempo della famiglia.
Non è andata così per Andrea e Claudia, vincitori stroncati da una morte prematura.
Mi chiedo come abbiano vissuto questi ultimi anni, caratterizzati principalmente da una parola: attesa.
Attesa della preselettiva e degli esiti, della prova scritta e degli esiti, dell’orale e dell’esito, dell’annullamento e dell’eventuale ribaltamento della sentenza.
Li penso; avranno pur letto qualche mio articolo battagliero e si saranno forse arrabbiati; certo l’esito finale, la loro morte improvvisa, non l’avevano immaginato. Si pensa a un Dio, io credo in Dio, ma la domanda “Perché?” resta senza risposta, quasi sussurrata in un silenzio di ghiaccio.
Non è la morte in sé a sconvolgere, nel mio quartiere si muore giovani e consumati, a fine funerale un bell’applauso alla bara nella speranza che il defunto affronti l’Aldilà con la consapevolezza che non ha avuto nell’ Aldiquà.
Sconvolge di più la morte di persone che, per un breve tratto di vita, si sono trovate a percorrere lo stesso sentiero, a condividere i medesimi sogni, ad arrivare-nonostante tutto- al traguardo e a non poter raccogliere il frutto di tanta fatica.
Andrea, sul profilo di FB, sorride e brinda mentre Claudia rivela uno sguardo intenso, caldo, pieno; già dai loro volti si intuisce che sarebbero stati attenti, scrupolosi, a tratti ironici, più presidi che dirigenti.
Non ci sono più e ci inchiodano a quel destino umano che tendiamo a dimenticare: così urliamo, ci azzanniamo come cani pronti a dare il corpo del nemico in pasto agli avvoltoi.
E ieri, mentre girellavo per le vie presa da questi pensieri come solo ai vivi è concesso, ho appreso la notizia dell’arresto di un mio ex alunno:
“Davvero non lo sapeva? E’ successo qualche mese fa.”
“Ma non qui, vero?”
“No, ad XXX, era all’estero”.
Sono abituata agli arresti degli ex alunni, non è il primo e non sarà l’ultimo; crimini infantili che vedono l’utilizzo di pistole giocattolo, crimini irrispettosi, crimini per portar la ragazza a cena fuori in un posto decente, crimini.
Ma ieri non ero proprio in vena di arresti e ho chiuso gli occhi pensando al motivo che più mi spingeva a diventare dirigente: combattere quella dispersione scolastica che miete vittime nel primo biennio delle superiori. perché è lì che si perdono i ragazzi. Il biennio delle superiori in alcuni istituti è un limbo: i professori faticano a tenere le classi, i genitori faticano a gestire gli alunni, i ragazzi-considerati dei miti nei quartieri d’origine- si rendono conto che lì sono nessuno e agiscono la frustrazione con rabbia o, semplicemente, tolgono il disturbo e se ne vanno per strada.
Per questo mi rivolgo ad Andrea e Claudia, perché da lassù illuminino i cuori di quei dirigenti che sono troppo impegnati a difendere la fama di scuole serie e rigorose, a punirne uno per educarne cento.
E mi rivolgo anche ai nuovi dirigenti, specie a quelli che prenderanno servizio nella secondaria di secondo grado: non abbandonate i ragazzi di periferia, piuttosto proponete quei percorsi di apprendistato (e non di ri-orientamento) che li potrebbero davvero aiutare.
Si tratta di una battaglia importante che molti tendono a dimenticare e che gli insegnanti si trovano a combattere da soli: se un ragazzo non viene a scuola, andatelo a cercare.
Devo dare atto che, nel caso di Verona, questo si fa; a Verona i baristi che accolgono minorenni in orario scolastico pagano una multa ma nel resto d’Italia non è così: non è così a Genova. Anzi accade che questa, come tante città d’Italia, si comporti da madre con alcuni ragazzi e da matrigna con altri; si sa, Genova è una città lunga e difficile ove turchino e smeraldo si snodano aristocratici e sereni sulla costa mentre, dalla collina, incombono violenti, come nembi autunnali, pronti a esplodere, i casermoni dei quartieri popolari.
Le scuole superiori e la borghesia cittadina per il momento non se ne curano (ci sono già le scuole di quartiere, i presidi culturali dei ghetti per i quali, però, valgono le regole delle altre scuole e le sovvenzioni diminuiscono di anno in anno) ma, prima o poi, si troveranno fare i conti con questa realtà che preferiscono negare fingendo di non vederla.
Eppure le tessere di un tessuto urbano si intersecano e, se si incontrano, traggono forza le une dalle altre in modo da appianare le differenze; se invece si ignorano o si scontrano, quelle fortificazioni invisibili ma per ora solide, saranno destinate a cadere radendo al suolo tutto.
Chiedo dunque ai nuovi dirigenti di parlare con chi è a disagio perché la parola di un capo d’istituto è più forte di quella di un coordinatore di classe, di trovare soluzioni positive, di spronare i docenti a segnalare le assenze per tempo e non solo quando queste hanno superato il limite consentito; chiedo di non sospendere i ragazzi ma di includerli, di non pretendere che tutti conoscano “il Programma” ma di considerare che, nella nostra penisola, esistono luoghi in cui non valgono le leggi del resto d’Italia.
Se qualche dirigente avesse cercato, parlato, agito -anziché gettare la spugna- forse oggi nelle carceri straniere ci sarebbe un Italiano di meno e a scuola un ragazzo in più.
Alessandra Giordano